All Movies Magazine

Pubblicato il 13 Luglio 2019 | da Giuseppe Cozzolino

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THE SERIAL LAB: Appunti su THE HOT ZONE

IL MOSTRO E’ TORNATO

a cura di

Antonio Cataruozzolo

‘la storia è un incubo da cui cerco di destarmi’

(James Joyce)

 

Questo 2019 ci ha regalato eccellenti prodotti narrativi seriali, che hanno per antagonista mostri invisibili,  cose che convivono con noi e che all’improvviso, per i più svariati motivi, dall’errore umano alla mutazione genetica, possono manifestare ed imporre la loro presenza,  annullando la nostra dal pianeta.

Nella narrativa e nelle opere di finzione audiovisive, a partire dalla seconda metà del novecento, a seconda delle tensioni politiche e sociali, è sempre mutata la prospettiva, endogena o esogena, dalla quale potesse arrivare una minaccia letale per una popolazione di un’area specifica della terra.  The Hot Zone, miniserie prodotta dal gruppo Fox21 Television Studios e National Geographic Production – distribuita a fine maggio sul canale National Geographic USA – affronta proprio una di queste minacce. Ideata da Kelly Souders, Brian Peterson, Jeff Vintar, vanta tra i produttori esecutivi anche Ridley Scott e sarà mandata in onda ad inizio settembre anche in Italia. Ma abbiamo assistito alla proiezione in anteprima dei primi due episodi il 12 luglio al Festival del Cinema e della Televisione di Benevento, premiere presenziata da uno dei suoi protagonisti, l’attore irlandese Liam Cunningham, noto per il suo Sir Davos ne Il Trono di Spade.

Se in Chernobyl il nemico,  mostro invisibile da contrastare e contenere, erano le radiazioni del reattore 4, qui il villain è una minaccia fatale nel 90% dei casi di contagio umano, ingenerando una crescente tensione catastrofica senza eguali. Perché nulla insegna e terrorizza meglio della storia, come ebbe a dire anche Joyce nel suo “Ulisse”.

La miniserie è tratta dal saggio storico-scientifico di Richard Preston ed è sviluppata in sei episodi, in cui si diramano due storyline principali, atte ad introdurre la genesi del problema e la gestione odierna della minaccia. La narrazione rimbalza dal presente storico, indicato intorno la fine di novembre, Festa del Giorno del Ringraziamento, al dicembre del 1989, periodo in cui i medici di Fort Detrick, istituto medico americano di ricerca sulle malattie infettive (USAMRIID),  si troveranno a fronteggiare una minaccia micidiale per l’essere umano – il virus Ebola Zaire – in seguito ad un contagio avvenuto presso il Reston Monkey Facility, centro di ricerca in cui si effettuavano esperimenti sulle scimmie.

Anche l’Italia ebbe che fare recentemente con il virus Ebola, quando il dottor Fabrizio Pulvirenti, medico di Emergency, contrasse il virus  mentre era di servizio in Sierra Leone, cinque anni fa. Fortunatamente sopravvissuto , quando in un’intervista gli fu chiesto a cosa avesse provato, rispose che la sua mente andò immediatamente alle sue figlie ed alla sua famiglia. La stessa identica reazione della protagonista di The Hot Zone, la virologa veterinaria  Nancy Jaax – l’attrice Julianna Margulies nota per aver interpretato la protagonista di The Good Wife – la quale durante un test nella hot zone, che indica sia l’area di contagio, ma definisce anche il laboratorio militare contenente tutti i peggiori virus conosciuti,  nota un taglio sulla tuta isolante mentre testa delle provette di sangue. Da quel momento in poi le linee narrative delle vite private dei protagonisti subiranno  le conseguenze di questo rischio epidemico senza pari nella storia dell’umanità.

“Ebola era comparso in quelle stanze, aveva sventolato i suoi stendardi, si era nutrito e quindi si era nuovamente ritirato nella foresta. Tornerà.”. Con queste parole Richard Preston conclude il suo libro, e le medesime parole le rivolge Nancy Jaax al virologo Wade Carter, interpretato da Cunningham: Il Mostro tornerà. Carter ha già affrontato il virus Ebola nel 1976 , in un villaggio vicino al fiume Ebola, in Zaire: un eroe rinnegato dal governo, ma richiamato in prima linea, che proverà a dare un contributo determinante per impedire l’inizio di una nuova epidemia.

Sotto il profilo tecnico-formale la sceneggiatura ci regala dalla prima sequenza un profilmico contenente la simbologia della sciagura imminente sotto le sembianze di un corvo che vola, planando in un soggiorno di una lussuosa villa del Kenya. Nella villa stranamente non c’è nessuno, il corvo ne approfitta cibandosi alla tavola imbandita per una succulenta colazione. Da questa sequenza in poi  la regia di Michael Uppendahl e Nick Murphy si concentrerà sulla gestione del problema, mettendo in mostra i limiti , la fallibilità e l’inesistenza di protocolli adatti all’emergenza. Si assisterà quindi a bracci di ferro istituzionali riguardo scelte drasticamente estreme, in cui si presume che l’elemento salvifico sarà come sempre il problem solving creato ad-hoc dall’uomo.

La natura fa il suo corso, non ha un’etica. Si evolve e si adatta. Può allora la scienza contrastare e prevenire eventuali minacce per l’uomo? La risposta a questa domanda sta nella ricerca e nella conoscenza ovviamente ed anche nella visione di questa serie.

La riflessione finale non può che rivolgersi ai focolai di Ebola ancora presenti in Africa, ma soprattutto ai mutamenti climatici ed ai suoi conseguenti esodi migratori. Basterà avere lo stesso coraggio e la stessa determinazione del dottor Wade Carter? Noi speriamo di si, come ci suggerisce egli stesso alla fine del secondo episodio: “Se questa cosa è talmente pericolosa da bruciare un villaggio, allora è ancora lì fuori da qualche parte. E noi la troveremo.”

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