All Movies Magazine

Pubblicato il 7 Settembre 2018 | da Valerio Caprara

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In morte di Burt Reynolds

Magari non passerà alla storia del cinema come “The Last Movie Star”, che per una bizzarria del destino è il titolo dell’ultimo film interpretato benché in precarie condizioni di salute l’anno scorso, ma certo Burt Reynolds è stato uno dei duri più credibili degli ultimi quarant’anni del cinema hollywoodiano. L’attore e regista scomparso ieri mattina a 82 anni per infarto in un ospedale della Florida non è mai riuscito, in effetti, a convincere la critica che al massimo l’ha degnato della qualifica di “Clint Eastwood minore”, ma il pubblico casalingo e internazionale non è stato dello stesso parere gratificandolo di una simpatia e una stima non sempre automaticamente connessi alla riconoscibilità. Settanta pellicole in filmografia, a cui si sono aggiunte numerose serie tv e sei performance (ancorché poco significative) da regista, del resto parlano chiaro e se la lista dei premi e riconoscimenti appare scarna, almeno i memorabili ruoli interpretati in “Un tranquillo week-end di paura” e “Boogie Nights – L’altra Hollywood” lo consacrano a dispetto d’ogni riserva nel novero oggi non più tanto affollato dei divi americani.

Nato a Lansing, Michigan, nel febbraio del 1936, Burton Leon Reynolds Jr. debutta a cavallo del 1960 in tv sfruttando il fisico massiccio e muscoloso e la fisionomia fortemente marcata dalle origini per metà irlandesi e per l’altra pellerossa cherokee, non a caso facendosi le ossa in titoli di culto come “Gunsmoke” e imponendosi definitivamente grazie ai 17 episodi di “Hawk l’indiano” nel 1966. Curiosamente coinvolto nello spaghetti western dello stesso anno “Navajo Joe” di Sergio Corbucci, Reynolds si fa notare aderendo spontaneamente allo stile conciso e inciso di artigiani del livello di Tom Gries, AnoldLaven e Samuel Fuller, ma raggiunge il successo entrando a fare parte del magnifico cast di “Un tranquillo week-end di paura” (“Deliverance”, 1972) che segna uno dei vertici del cosiddetto Rinascimento del cinema Usa inaugurato pochi anni prima da “Gangster Story”, “Il laureato” e “Easy Rider”. Nel film diretto dal giovane inglese in trasferta John Boorman Burt è, infatti, il più violento e incosciente del gruppo di amici inltratisi per un’escursione in canoa in una remota landa western e ritrovatisi alla mercé di balordi depravati, eredi non redenti dei recessi più feroci del mito americano. Essendo stato, inoltre, un buon “halfback” di football americano, risulta insuperabile anche due anni dopo nel ruolo di giocatore in “Quella sporca ultima meta” di Aldrich che demistifica in un’orgia di brutalità e slealtà i dogmi sportivi creati dal patriottismo reazionario. Diventato così, senza esibizionismi liberal, un’icona dei revisionisti hollywoodiani, furoreggia in un arco di film estremamente vario, ma sempre ispirato a un taglio irridente e anticonformista, a un machismo più o meno autoironico, a comportamenti più duri nei confronti del potere costituito che dei marginali e i non omologati (“Un gioco estremamente pericoloso” di Aldrich, “Vecchia America” di Bogdanovich, “L’ultima follia di Mel Brooks”, “La fine… della fine” diretto da se stesso, “Taglio di diamanti” di Siegel, “I miei problemi con le donne”, cucitogli addosso dal sublime prestidigitatore di caratteri Blake Edwards, “Striptease” di Andrew Bergman, grazie a cui conosce l’onta dei Razzles, i premi-pernacchia dedicati ai film più orripilanti dell’anno).

Quando sembra avviato a un ridimensionamento della qualità degli ingaggi e accetta d’eseguire il doppiaggio di popolari videogiochi – mentre la vita privata non alimenta eccessivamente i gossip di Hollywood Babilonia (è stato sposato due volte, ha adottato un figlio ed è stato legato per molti anni alla collega Sally Field e alla cantante Dinah Shore) – si produce in un entusiasmante ritorno di fiamma prima grazie al capolavoro di Altman “I protagonisti” e poi ottenendo una nomination all’Oscar come migliore attore non protagonista per “Boogie Nights” (1997), in cui il geniale Paul Thomas Anderson, erede dei ruvidi professional del suo passato, narra l’ascesa e il declino di una star del porno nel passaggio cruciale dai ribellistici Settanta agli iperedonistici anni Ottanta.

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