Pubblicato il 3 Ottobre 2017 | da Valerio Caprara
0Autarchico o no? Sul decreto legislativo di Franceschini
Non c’è niente da fare, siamo fatti così. Gli opposti estremismi all’italiana rischiano di guastare gli umori e le opere di un politico tendente al moderato, al colto e al suadente come Dario Franceschini. Attorno al decreto legislativo approvato ieri dal Consiglio dei ministri –peraltro generato dalla “sua” Legge sul cinema che ha interrotto un periodo annoso di vuoto ed è stata salutata con grande favore dalla stragrande maggioranza degli addetti ai lavori- che impone vincoli alquanto pesanti alle tv nazionali e alle aziende come Netflix o Amazon che operano nella distribuzione via internet di film, serie e altri contenuti d’intrattenimento sembra riaccendersi, infatti, l’aspra contesa tra liberisti e protezionisti. E’ lecito al proposito esimersi dal ruolo di ultrà?
Diamo un’occhiata, intanto, ai punti cruciali del decreto: nella (teoricamente) benemerita intenzione di ridare ossigeno alla perenne spossatezza del prodotto tricolore, la nuova normativa si muove essenzialmente sul doppio binario dei palinsesti e degli investimenti. La riforma obbliga, in effetti, le emittenti statali e private ad aumentare la quota di film italiani trasmessi in prima serata (addirittura con una ricetta da farmacia culturale: un film o una fiction alla settimana su ogni canale, ben due invece sul groppone di mamma Rai) e a portare gli investimenti in prodotti nostrani sino al 15% per le private e al 20% per la Rai. Senza parlare delle multe, oggettivamente spropositate, stabilite per chi non rispetta le costrizioni: da centomila a cinque milioni di euro, oppure sino al 3% del fatturato nel caso che il valore di tale percentuale superi i cinque milioni- Per i nostalgici dello slogan -già oggetto qualche anno fa di una marea di trombonate patriottiche e subdoli fraintendimenti soprattutto in Francia- “l’arte e la cultura non sono merci come le altre” il decreto è troppo blando e quindi inadatto a rieducare il popolo bue con le auspicabili manette legislative e le necessarie piogge di dazi. Per gli esponenti più veementi di matrice liberale il passo del ministro Pd riporta il comparto ai nefasti diktat dell’autarchia, ai muri che difendono l’Arte del malvagio straniero, al delirio dirigista che sogna da sempre di portare gli spettatori a vedere i film giusti con l’ausilio dei carabinieri. Con l’inevitabile risultato futuro di farli riparare ancora di più di quanto notoriamente fanno nelle cospicue e libere braccia dei nuovi mezzi di comunicazione come pc, tablet o smartphone. E’ la stessa preoccupazione, per la verità, espressa dalla lettera recapitata a Franceschini dai principali broadcaster –dalla Rai a Mediaset, da Sky a La7, da Fox a Disney e De Agostini- in cui si sostiene che il provvedimento, estremamente rilevante per gli effetti peggiorativi sotto il profilo editoriale, economico e occupazionale, “risulta costituire di fatto una nuova imposizione insostenibile a danno dei maggiori operatori televisivi nazionali”.
Non è per trasformarli in arbitri salomonici ed esangui, però, che le reazioni di tutti gli “utilizzatori” –da quelli appassionati, competenti e aggiornati a quelli, generici, occasionali o solo curiosi- dovrebbero essere sintonizzate su un solido pragmatismo. Il decreto promuove il bene o il male dell’industria dell’audiovisivo? Il massiccio aiuto promesso al made in Italy servirà davvero a farlo procedere in una direzione sprovincializzata e competitiva? Il principio delle quote obbligatorie (strumento di per sé ambiguo e assai scivoloso, se non puramente demagogico) servirà a qualcosa di concreto una volta applicato alle opere di finzione? Le risposte sarebbero positive solo qualora si nutra fiducia –e non è un’impresa facile- nell’efficacia della loro attuazione. E’ ancora vivido il ricordo, infatti, delle tante volenterose leggi –a cominciare da quella del 1994 voluta da produttori importanti come Cristaldi collegati una tantum alle associazioni più barricadiere dei cineasti cosiddetti “autori”- che costruirono ponti d’oro per il cinema nazionale ottenendone in cambio una valanga di film indecenti, inutili o mirati a poche decine di fanatici cinéfili. Insomma i produttori –specialmente quelli italiani, possono certo avere bisogno di tutele e riconoscimenti, però se li devono meritare. Il segreto (di Pulcinella) sta nell’impegnativa congiunzione “se”: il giro di vite autonomista, un po’ alla catalana, a dirla tutta, placherebbe i tormenti dei sospettosi o riottosi solo se si tradurrà in un maggior numero di prodotti che sfidino lealmente gli stranieri sul piano della qualità e nello stesso tempo coinvolgano fortemente il pubblico disamorato per colpa loro.