Pubblicato il 9 Dicembre 2010 | da Valerio Caprara
0In un mondo migliore
Vietato parlare di originalità, ma ben vengano nuove storie incentrate sullo sguardo dei bambini; il quale, com’è noto, non è ingenuo né tollerante bensì complesso ed esigente, se non addirittura spietato nei confronti dei comportamenti degli adulti. “In un mondo migliore”, in effetti, è uno di quei film d’autore sponsorizzati d’ufficio dalla critica, ma congeniali anche ai gusti degli spettatori giovani & impegnati (non a caso ha vinto il premio del pubblico al recente Festival di Roma). Lo firma la danese Susanne Bier che, dopo il dittico “Non desiderare la donna d’altri” e “Dopo il matrimonio” e l’estemporanea esperienza americana di “Noi due sconosciuti”, si conferma neo-leader di un cinema di spessore narrativo e sociologico, con un particolare penchant per la metafora filosofica. Purtroppo la parabola dei due dodicenni che si sentono “diversi” dal branco e scontano i veri o presunti traumi della crescita convogliando un’ostilità via via più distruttiva verso i rispettivi padri non è, secondo noi, in grado di riscattare il difetto artistico di fondo.
Stiamo parlando di una sceneggiatura premeditata sino alle virgole, sempre pronta, cioè, a fare succedere quello che “le torna utile” per garantire la quadratura ed esemplarità dei fatti che a questo punto non possono che risultare moralmente nobili, giusti e soprattutto inequivocabili. Elias, il cui padre lavora da volontario in un campo profughi africano, è timido e indifeso davanti alle angherie dei coetanei che l’hanno preso di mira per le ragioni più banali; Christian, rimasto orfano della madre stroncata dal cancro e disprezzato come uno straniero perché tornato in Danimarca dopo avere vissuto… in Svezia (!), è mosso da un comprensibile surplus di dolore e rabbia. A margine di questo sodalizio fra perdenti, che non mancherà di provocare drammatiche conseguenze, la progressione drammaturgica propone un finto dubbio: come deve comportarsi un ragazzo che s’affaccia alla vita e non sa come reagire alla sopraffazione dilagante? La risposta della Bier appare, peraltro, bella e pronta: in un “mondo migliore” la scelta della non violenza sarebbe in grado di disinnescare la logica del dente-per-dente, ma nel nostro chiunque porga l’altra guancia è destinato a essere trattato da debole e impotente. Il gioco al massacro dei buoni sentimenti non costituisce, dunque, una sorpresa in una civiltà il cui progressismo di facciata, non appena le durezze della vita lo pretendono, si scopre coincidente con la disumanità dei peggiori capotribù africani. Una mole di temi così forti –il bullismo, l’elaborazione del lutto, il rapporto educazione-istinto, il basico scontro tra povertà e ricchezza ecc.- avrebbe avuto bisogno di quattro o cinque film per svolgersi con fluidità e suspense. Inzeppati in due ore spesso stilisticamente sbrigative (il massimo lusso è il montaggio alternato) rischiano, magari a scapito delle impeccabili recitazioni, di comunicare un’impressione di cattivismo retorico e ambiguo sensazionalismo.
IN UN MONDO MIGLIORE
REGIA: SUSANNE BIER
CON: MIKAEL PERSBRANDT, TRINE DYRHOLM, ULRICH THOMSEN, WILLIAM J. NIELSEN
DRAMMATICO – DANIMARCA 2010