classifiche

Pubblicato il 29 Dicembre 2020 | da Valerio Caprara

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I migliori film (o quasi) del 2020

1) I MISERABILI di Ladj Ly

2) 1917 di Sam Mendes

3) ROUBAIX, UNA LUCE NELL’OMBRA di Arnaud Desplechin

 4) IL LAGO DELLE OCHE SELVATICHE di Yi’nan Diao

 5) RICHARD JEWELL di Clint Eastwood

 6) MANK  di David Fincher

 7) UNDINE di Christian Petzold

 8) COSA SARÁ di Francesco Bruni

 9) NOTTURNO di Gianfranco Rosi

10) MI CHIAMO FRANCESCO TOTTI di Alex Infascelli

 

 

 

Che sia stato un annus horribilis anche per il cinema non c’è dubbio alcuno. Con due lockdown e le sale aperte sei mesi su dodici, non c’era, del resto, d’aspettarsi nulla di più fausto: nella perdurante afflizione, però, degli spettatori e dei lavoratori del settore, produce ulteriore malessere la marea di retorica e ipocrisia riversata nelle grida di dolore di sussiegosi intellettuali e opinionisti. Se, insomma, la tanto rimpianta “fame di film” stava scemando inesorabilmente di stagione in stagione o se il box-office segnalava da tempo che, esclusi i giovani tra i 18 e i 24 anni, pochi adulti staccavano ormai un biglietto, la colpa non era del Covid.

Un pensierino facile ma realista che ci fa chiedere se l’altalena di disastri, illusori sollievi e ricadute nell’incertezza più allarmante sia stata una batosta imprevedibile ovvero la miccia che ha accelerato l’esplosione di un processo in atto. L’altra questione è, poi, quella di riconoscere senza storcere il naso l’enorme sostegno fornito in questi pessimi frangenti dalle (ri)programmazioni dei palinsesti tv e soprattutto dalla sempre crescente offerta delle piattaforme commerciali Sky, Netflix & co. Che hanno reso meno disperanti le autoreclusioni casalinghe, offerto visibilità a tantissimi titoli che sarebbero stati penalizzati dalla distribuzione, nonché incentivato l’accesso ai classici e ai cult movies dei cinefili allo stato nascente. Proviamo quindi a indicare i migliori film senza differenza tra quelli usciti in sala e quelli distribuiti in streaming, fingendo a fatica, però, che le serie tv non ci abbiano “colonizzato l’inconscio” (come avrebbe detto un Wenders d’annata) e che capolavori come “La regina degli scacchi” o “The Crown”, benché diluiti in stagioni ed episodi, non avrebbero scompaginato interamente la lista.

Meno male che il più bello in assoluto sia, invece, un film-film a 18 carati ossia “I miserabili”, poliziesco-verità senza un attimo di tregua dedicato alla rabbia, il dolore, il caos che covano sotto la cenere del disagio societario delle megalopoli occidentali. L’autore Ladj Ly riesce, infatti, a immergere il pubblico nell’implacabile climax dell’inesausto fronteggiarsi nelle banlieue parigine tra poliziotti e residenti che ci mette poco o niente per tracimare in una guerriglia da cui nessuno verrà fuori del tutto colpevole o innocente. Influenzato, senza mai dichiararsi cinefilo, da autori e titoli importanti (da “Distretto 13: le brigate della morte” a “L’odio”, da “Il braccio violento della legge” a “Training Day”), il regista riesce a scolpire con vividi tocchi e il decisivo contributo degli attori professionisti, non professionisti e soprattutto bambini e adolescenti la credibilità dei personaggi che cercano di conservare il dominio sulle postazioni di legalità e illegalità concesse o conquistate nelle circostanze più turbolente. Tre membri della BAC –la brigata anti criminalità- che incarnano tre reazioni diverse all’esperienza, il sangue freddo e l’equilibrio richiesti dai pattugliamenti, i controlli e la repressione dei reati; tre gruppi dall’identità pericolosa –gli spacciatori di droga, gli adepti e gli imam fondamentalisti (l’ex galeotto e salafita Salah assume, per la verità, l’ambiguo ruolo di mediatore ragionevole) e gli imboscati confidenti e fiancheggiatori degli sbirri- che digrignano appena possono in faccia all’establishment “è sempre colpa vostra”; tre momenti tragici nell’arco di una manciata d’ore in cui la suspense non minimizza la denuncia e viceversa; tanto è vero che diventerà un esempio da manuale per gli studenti di cinema come il volo del drone di proprietà di un occhialuto ragazzino nero, che ha registrato per caso la prevaricazione effettuata da uno dei poliziotti, funzioni nello stesso tempo come passaggio cruciale della trama e scelta stilistica intesa a evidenziare la topografia concentrazionaria del quartiere.

 

Anche un autore ben più sperimentato e onorato come Mendes sparge adrenalina a tutto schermo scaraventando lo spettatore nel carnaio della prima guerra mondiale: “1917” entra certo nell’album dei primati tecnici perché girato (con più di un trucco, s’intende) in un unico piano sequenza di due ore intere; eppure nell’oscurità di sangue, fragore e terrore che avvolge i soldati votati a un’insensata missione suicida conta di più che emerga la percezione morale della bestialità bellica. Da recuperare con attenzione è “Roubaix, una luce nell’ombra” che l’eclettico regista Desplechin ha tratto da un fatto di cronaca accaduto nella sua città natale, la schiva e algida Roubaix: noir attraversato dal bagliore della luce citata nel titolo procede tra anse di misteri e malesseri a caccia dei responsabili del sordido omicidio di una vecchia. Deus ex machina nonché garante del raffinato ritmo sincopato è il commissario Daoud, interpretato come meglio non si potrà più fare dall’attore ed ex calciatore di origine marocchina Roschdy Zem. Molto suggestivo e parimenti (purtroppo) di nicchia, “Il lago delle oche selvatiche”, un cupo poliziesco con il jolly di sorprendenti aperture al fantastico e all’allegorico che include la vista di una Cina appartata, miserevole e criminogena e conferma il talento fuori standard del cinquantenne regista Diao.

Non sarà il migliore titolo di Eastwood, ormai icona di sé stesso, ma “Richard Jewell” propone pur sempre una narrazione asciutta, lineare e tagliente come garantiva il marchio hollywoodiano sino alle mutazioni avvenute al passaggio del secolo. Nessun eroe, stavolta, e neppure un vero antieroe, bensì un ometto insignificante che, peraltro, tutelerà senza volerlo ciò che resta dei valori del Sogno americano. Su “Mank” si è già dibattuto con inusitato fervore, visto che il film di Fincher è uscito soltanto come ennesimo fiore all’occhiello del catalogo Netflix. Irritato e spesso annoiato dalla minuziosa, estenuante ricostruzione tra verità e leggenda eretta attorno all’episodio clou della vita di un brillante e dissipato giornalista newyorkese –la sceneggiatura del capolavoro di Orson Welles “Quarto potere”- il sottoscritto non può e non deve tuttavia esimersi dal raccomandare ai cinefili compulsivi lo sfoggio in bianco e nero del mirabolante andirivieni temporale infarcito di piani sequenza, flashback, suoni distorti che riecheggiano i classici degli anni Quaranta e chi più ne ha più ne metta. Ipnotico nonché subito di culto, “Undine – Un amore per sempre”  è la versione melodrammatica e insieme ragionata del mito germanico della ninfa Ondina, sprovvista di anima fin quando non si lega a un essere mortale. Ritorno a vele spiegate dell’estasi da amour fou che rivendica l’eterna sussistenza del sublime e del tragico nella condizione umana persino nella dimessa quotidianità di un mondo desacralizzato. “Cosa sarà” testimonia la vitalità del cinema nostrano –ma anche “Favolacce” e “I predatori” hanno meritato un posto al sole del 2020- quando abbandona le strettoie del goliardismo ritardato o dell’indignazione a comando politicamente corretto. Bruni, ottimo sceneggiatore e regista in proprio- vi trova un blend tra il trasognato e l’angosciato ideale per raccontare il terrore della malattia, campanello d’allarme per chi vive convinto del proprio inattaccabile diritto al vita. Infine due documentari sul Medio Oriente in fiamme (“Notturno” di Rosi) e la catarsi di un campione sportivo (“Mi chiamo Francesco Totti” di Infascelli) scelti perché il genere ha ormai trasceso qualsiasi barriera e sa come in questi casi giovarsi di un linguaggio tanto autonomo da sembrare creato dai registi all’occorrenza.     

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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