Pubblicato il 30 Dicembre 2022 | da Valerio Caprara
010 Migliori e 4 peggiori film dell’anno solare 2022
Ovviamente è un gioco. O forse no: in proporzione ai numeri dei biglietti staccati anche nel 2022 un pugno di film belli e brutti potrebbero bastare. Per fortuna o purtroppo ci sono quelli visti in tv e qui il discorso, oltreché allargarsi a dismisura, si farebbe ingarbugliato e per di più superfluo. Infine ci sono da rispettare le categorie: prendersela con i fanti mettendoli in gara con i santi è roba da cinegrilli parlanti. Un minimo di cautela va infine usata con gli interlocutori: tirare fuori dal cilindro titoli cervellotici o invisibili ai comuni mortali è il tipico vizio degli esperti. Per l’agonia delle sale è anche loro un briciolo di colpa.
MIGLIORI. “Ennio”: Tornatore ci tramanda tutto Morricone: l’uomo, la musica, i film, l’empatia tra il regista e il compositore, l’amore degli amici e dei colleghi. Ma soprattutto prorompe dalla sapiente tessitura un amore no limits per l’arte che emoziona e commuove in ogni fotogramma
“The Batman”: A partire dai fantasmagorici quindici minuti iniziali, il regista Reeves in stato di grazia riesce a coniugare il mistero con l’orrore, sino a far sì che un film di supereroi non sia più un film di supereroi bensì un’immersione nella paura e il delirio della nostra epoca implosa.
“La stranezza”: Andò procede mantenendo vividi il ritmo, la riflessione e lo spasso e facendo risaltare la moderna e acquisita esigenza della fusione tra alto e basso, realismo e metafora, ispirazione e fantasia, attori e spettatori sulla ribalta e nello schermo.
“Athena”: Romain Gavras ci regala all’inizio uno dei piani-sequenza più sbalorditivi e memorabili mai visti su uno schermo per poterci immergere nel corso di tutto il film nel caos incontrollabile della banlieue parigina messa a ferro e fuoco dalla guerriglia societaria.
“Parigi, 13arr.”: Audiard ambienta nel quartiere di Parigi soprannominato Les Olympiades un triangolo erotico sfrenato e disperato, perfetto per restituire la precarietà della nuova gioventù nel lavoro e i sentimenti.
“The Fabelmans”: Nella semi-autobiografia di Spielberg l’epicedio struggente dei passaggi dall’infanzia all’adolescenza e insieme una dichiarazione d’amore al cinema e all’enorme peso epico e simbolico che vi hanno aggiunto i maestri. Truffaut e John Ford prima di tutti.
“Il piacere è tutto mio”: Scabroso, ma non pruriginoso. Teatrale, ma non claustrofobico. Gestito al millimetro, ma senza risultare artefatto. Profondo e rigoroso, ma anche brillante e spiritoso. Una brillante commedia sulla sex positivity capace di coinvolgere e divertire grazie soprattutto a un’Emma Thompson sublime.
“Maigret”: Depardieu messo in grado d’integrare la propria debordante fisicità nella deriva crepuscolare del personaggio e nella strisciante depressione che conferisce ai suoi movimenti e sguardi la risonanza di un animale morente nella giungla metropolitana. A ben vedere un poliziesco di fantasmi.
“Perfetta illusione”: La forma in una brillante, allusiva e maliziosa “tranche de vie” sull’eterno sfasamento degli umani tra l’illusione e la realtà interagisce con il contenuto in linea verticale, cioè facendo affiorare in scioltezza le metafore dai fatti anziché disporle sulla consunta linea etico-sociale orizzontale.
“Nostalgia”: Per Martone sulle tracce del romanzo di Rea la ricerca del tempo perduto del protagonista diventa un viaggio re-iniziatico senza uscite di sicurezza napoletaniste, bensì supportato dalla capacità visionaria di illuminare i lati più arcani e infetti del labirinto metropolitano.
PEGGIORI “Il paradiso del pavone”: Lungi dall’accostarsi alle satire antiborghesi bunueliane, il film suscita l’impressione di un’immane pretensione soprattutto nei momenti top come quelli dell’outing lesbico dell’arcigna decana o delle spregevoli performance di (tutti) gli spregevoli maschi. Il colmo del grottesco si raggiunge, però, nella scena del funerale dello stolido pavone Paco fracassatosi al suolo perché ha le ali ma non sa volare. Afferrata la metafora?
“Il colibrì”: “Hai letto il libro?”. “No e mi dispiace”. “Hai visto il film?”. “Sì e mi dispiace”. La trasposizione dell’Archibugi sembra l’emblema del cinema italiano più decorativo, un compendio snervante di pretensioni artistiche e iperboli melodrammatiche inanellate con un parossismo che farebbe fatica ad accreditarsi persino nei saggi di Eco sul romanzo rosa di Liala e Carolina Invernizio.
“Triangle of Sadness”: Ostlund scivola senza ammortizzatori nel limbo di una satira vecchia e stantia grazie a cui si rivela al mondo che i ricchi sono cinici e il liberismo è una schifezza. Fin qui ci sono arrivati in tanti e tutti – da Bunuel a Ferreri, da Von Trier a i Monty Pyton- più incisivamente di lui; ma il problema sta nel fatto che l’overdose inficia l’allegoria grottesca. Come se il divertimento consistesse nell’umiliare personaggi indifendibili in partenza e nel richiedere al pubblico una gongolante complicità mostrandogli i più odiosi annegare nel loro vomito e la cacca.
“Chiara”: La voglia matta di riportare il Duecento alle polemiche odierne, a una modernità da collettivo liceale rende impraticabile l’intento sia di cogliere la pregnanza storica degli eventi, sia di valorizzare la messinscena tra il realistico, lo ieratico e il sacrale. È proprio la premeditazione che raffredda e rende imbarazzanti i balletti in stile Figli dei Fiori o la canzone finale trendy del contemporaneo Cosmo.