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Pubblicato il 10 Aprile 2017 | da Valerio Caprara

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Totò “tagliato”

Tra le migliaia di aggettivi che il povero Totò si sta vedendo accollare in questi mesi, non dovrebbe mai mancare “indistruttibile”. Nessun altro artista, infatti, sarebbe potuto sopravvivere all’inesausto coro dei celebratori né continuare a opporre le proprie qualità alla bulimia interpretativa che prolifera di pari passo con la maniacalità dei fan e dei collezionisti. La serata-omaggio, che “Il Mattino” ha allestito come prologo alla pubblicazione di un nutrito inserto monografico, prevede però un passaggio che potrebbe svincolarsi dal forse inevitabile blob: la proiezione di un conciso florilegio dei tagli operati a suo tempo dalla censura su alcuni film interpretati dal più grande attore comico del cinema e del teatro italiani. Un contributo davvero incisivo e originale che il Centro Sperimentale di Cinematografia-Cineteca Nazionale ha voluto offrire al pubblico napoletano e in particolare ai lettori del suo quotidiano grazie all’illuminata presidenza di Felice Laudadio e alla generosa disponibilità di collaboratori e funzionari, in primis dello studioso e saggista Domenico Monetti della sezione Comunicazione, stampa ed editoria. I titoli dei film che hanno fornito (involontariamente) questo jolly filologico sono in ordine di apparizione “Totò cerca casa” (’49, Steno e Monicelli), il trailer di “Arrangiatevi!” (’59, Bolognini), “Dov’è la libertà…?” (‘54, Rossellini), “Sua eccellenza si fermò a mangiare” (’61, Mattoli), “Totò e le donne” (’52, Steno e Monicelli), “I due marescialli” (’61, Corbucci) e “Totò sexy” (’63, Amendola) e “Totò e Carolina”(’55, Monicelli), quest’ultimi privi del sonoro.

Al di là della curiosità epidermica, ne deriverà dunque la possibilità d’abbozzare una riflessione sulle influenze ideologiche che negli anni condizionati dal clima della guerra fredda si contrapposero utilizzando anche la sponda delle pratiche censorie. Diciamo subito che quest’indagine, non solo doverosa ma anche avvincente, può prendere due direzioni alquanto divergenti: quella secondo noi mirata ad aiutare non solo i cinefili a vederci più chiaro sui rapporti tra autori e mercato, recuperare l’uso imparziale delle testimonianze e dei documenti e delineare con la necessaria lucidità l’avanzamento spesso conquistato con la lotta del costume nazionale e quella più in voga e sbandierata a casaccio che tende a servirsene per ritrarre il nostro paese come una sorta di dittatura in grado di soffocare qualsiasi conato di dissidenza culturale. Per quanto oggi possa sembrare assurdo, innanzitutto, non è clamoroso il fatto che la censura si dedicasse con zelo all’esame dei film di serie B e C (dalle farse al peplum), perché era proprio nel settore destinato al tripudio delle sale popolari che le produzioni si concedevano licenze soprattutto sul piano del voyeurismo. Certo, tra decine di pellicole di questo genere che la facevano franca, si stagliano casi davvero incredibili come quello, appunto, di “Totò e Carolina”, da qualcuno definito con notevole enfasi il film più censurato della storia del nostro cinema: nel contesto di un apologo smielato ed edificante, per noi tra i peggiori girati dall’attore, la commissione dipendente dal ministero dell’interno allora occupato dal falco Mario Scelba ravvisò addirittura 35 punti da eliminare perché offensivi nei confronti dell’arma dei carabinieri e della religione cattolica. Circostanza che si ripete nel plot di “Guardie e ladri” in cui il brigadiere Fabrizi, secondo quei signori più realisti del re, quando rinuncia a consegnare per pietà il truffatore alla legge sarebbe apparso espropriato d’autorità e messo sullo stesso piano del personaggio antisociale. Puntualmente nemico delle figure di potere di volta in volta incarnate da caporali, capiufficio, deputati, direttori, comandanti, alti ecclesiastici il principe De Curtis rischiava di diventare un elemento pericoloso per la stabilità delle istituzioni consolidatesi nel dopoguerra a partire da quella cruciale della famiglia: tesi nient’affatto peregrina perché quel personaggio anarcoide e sfrontato sullo schermo non aveva rispetto per niente e nessuno, senza peraltro potersi giovare di padrini antagonistici considerato che i suoi filmetti erano invisi agli intellettuali vicini al neorealismo e la sua visione della donna e del sesso non coincideva certo con quella “onesta e pulita” promossa dalle militanti social-catto-comuniste dell’UDI. Grazie anche al nostro mini scoop, insomma, molti appassionati potranno rivolgersi con maggiore cognizione di causa ai lavori di Tatti Sanguineti che con le sue inchieste scritte e filmate ha fatto luce sulle motivazioni dei tagli di censura subiti da lungometraggi, cortometraggi e pubblicità distribuiti in Italia dal 1913 al 1965 (“Volete conoscere un film? Dai tagli fatti scoprirete quasi tutto. La censura aveva diversi livelli, basta saperli leggere”). Proprio lo storico, ricercatore e organizzatore definito da Aldo Grasso il “retroscenista” del cinema italiano che nel documentario “Giulio Andreotti – Visto da vicino” propose un’attentissima rilettura del rapporto col cinema tra il ’47 e il ‘53 del giovane sottosegretario del governo De Gasperi al di là della celebre battuta “i panni sporchi si lavano in famiglia” la cui alternativa epigrafe recita così: “mentre lavoravo a un libro su di lui, lo sceneggiatore ex comandante partigiano e comunista Rodolfo Sonego mi disse: Andreotti ha ammazzato cinque film, ma ne ha fatti nascere cinquemila”.

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