Editoriali

Pubblicato il 15 Gennaio 2023 | da Valerio Caprara

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Stasera Flaiano. Con molti meriti e un demerito

“Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso”. Così parlò Flaiano, ma sta di fatto che a cinquant’anni dalla morte sono rimasti in pochi a coltivare dubbi sulla sua genialità di corrosivo, paradossale, folgorante osservatore della società italiana. È quindi il momento giusto per non perdere “Ennio Flaiano, straniero in Patria” scritto e diretto da Fabrizio Corallo con Valeria Parisi che va in onda stasera alle 23,30 su RaiUno: un docufilm nient’affatto di routine sia perché il pescarese romano d’adozione è stato una persona molto schiva e quindi poco rintracciabile nelle immagini di repertorio, sia perché il suo profilo è stato, appunto, quello di un intellettuale non omologato che oggi risulta ben più importante di quanto sembrasse a tutti (compreso sé stesso) quando era vivo.

Lo conferma tra l’altro l’insolito dato che ai sei libri pubblicati in vita sono seguiti più di trenta usciti dopo la sua morte. Corallo, la cui filmografia documentaristica ha acquisito notevole rilievo in ambito cinematografico, stavolta sembra ispirarsi all’identikit tracciato dal sommo italianista Walter Pedullà: “Un narratore, uno sceneggiatore, un giornalista, un soggettista, un saggista, un critico, un commediografo, un epigrammista e uno scrittore di prose sempre più piccole che col passare degli anni e col trascorrere dei critici è diventato sempre più grande”. Si rievocano, così, con un buon ritmo punteggiato dagli intermezzi recitati da Cecilia Dazzi, gli echi di un’infanzia dickensiana trascorsa in un viavai di scuole e città sino all’approdo a Roma proprio all’inizio del Ventennio. Grazie al recupero di rari filmati è possibile poi ricostruire le precoci frequentazioni degli ambienti teatrali d’avanguardia dell’odiosamata capitale e soprattutto la repulsiva esperienza dell’arruolamento col grado di sottotenente nella guerra d’Etiopia destinata a confluire in Tempo di uccidere, il suo unico romanzo vincitore nel ‘47 del primo Premio Strega definito da Fofi “il nostro romanzo esistenzialista”. Mentre tra le numerose interviste e testimonianze spiccano, ovviamente, quelle a Suso Cecchi D’Amico e Fellini con cui collaborò intensamente per i soggetti e le sceneggiature di capisaldi del cinema italiano come “La strada”, “La dolce vita” e “8 e mezzo”. Le amicizie letterarie a questo punto rivivono negli spezzoni di pellicola riguardanti il Caffè Greco o la Fiaschetteria Beltramme in cui s’agitano gli illustri fantasmi dei Cardarelli, Palazzeschi, Penna, Talarico, Brancati e del pittore Tamburi oppure quelli di Pagliero, Bragaglia, Fabrizi, Maccari e altri habitué di Cinecittà insieme ai quali arrivò a firmare le sceneggiature di una sessantina di film, non di rado capisaldi della commedia all’italiana. Uno dei meriti del documentario appare senza dubbio quello di avere ricostruito con la necessaria delicatezza il sottofondo biografico che ha conferito anche agli aforismi e assiomi più feroci un sapore d’amarezza e malinconia: sposatosi con l’insegnante Rosetta Rota ebbe, infatti, una figlia soprannominata Lè-Lè, gravemente ammalata sin dalla nascita e amatissima dai genitori che la protessero strenuamente dando fondo alle entrate garantite dal teatro e il cinema. Infatti più ancora che alle delusioni professionali –emblematico su tutti il fiasco della pièce satirica “Un marziano a Roma” che gli ispirò il superbo lampo sarcastico “L’insuccesso mi ha dato alla testa”- il suo wildiano, asprigno e a tratti cinico umorismo rispose sempre all’eco di un animo disilluso a cui, per fare solo un esempio, fa capo un altro dei suoi caustici evergreen: “I giorni indimenticabili nella vita di un uomo sono 5 o 6 in tutto. Gli altri fanno volume”.

Dispiace solo che in questo puzzle gremito d’informazioni preziose manchi un tassello essenziale e cioè il motivo principale per poterlo definire a pieno titolo una personalità controcorrente. Quando nel nostro paese la spinta redentrice del dopoguerra fu sterilizzata dall’egemonia culturale del pensiero unico marxista-stalinista (sebbene il partito di maggioranza, la DC, esercitasse il suo potere di governo, nel campo culturale brillava per la sua assenza, o peggio per il suo stato di sudditanza nei confronti dell’agguerrita opposizione comunista), l’intellighenzia si conformò in maggioranza ai diktat zdanoviani, a cominciare dall’obbligo di ricorrere al salvifico stile cosiddetto nazional-popolare. Flaiano, già devoto all’irriducibile Longanesi, non fu mai cooptato nel mucchio e scontò le censure comminate agli artisti di fede liberale, laica e riformista restando fedele agli amici di “Il Mondo”, il settimanale che lo aveva annoverato tra i fondatori insieme a Pannunzio. Altro che contenutismo, in “La solitudine del satiro” ebbe il coraggio di dichiarare che non tollerava i capelli nella minestra: in un piatto va messa la minestra, cioè il racconto puro, e in un altro piatto i capelli, cioè le idee. Ed è proprio per questo, per non morire neorealista che “arretrò” verso il romanzo moderno, chiedendo aiuto a Pirandello, Svevo, Campanile, Gadda, Savinio nonché a Swift, colui che vide lillipuziani dove le masse vedevano giganti. Nei foglietti su cui i fervidi autori del documentario animano le massime con cui il poeta lunatico e irriverente non diede mai disposizioni né postulò vie di salvezza mancano, peccato, alcuni sigilli politicamente scorretti ante litteram come “Non sono comunista perché non me lo posso permettere”, “Ognuno vuole la sua versione della libertà, che consiste nel sopprimere quella dell’altro”. O addirittura, colpendo duro nell’attualità: “In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti”.

 

 

 

 

 

 

 

 

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