Recensioni

Pubblicato il 8 Dicembre 2020 | da Valerio Caprara

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Rione Sanità. La certezza dei sogni

“Ciao babbo, avresti mai immaginato di ricevere una lettera da me?”… Quando nel prologo queste parole risuonano nel buio dello schermo è già chiaro il tono affabile, pacato, introspettivo che il documentario di Massimo Ferrari “Rione Sanità. La certezza dei sogni” ha scelto per potere rievocare la rinascita civile, culturale e (almeno sino all’insorgere della pandemia) economica del celebre quartiere napoletano attraverso il ruolo cruciale che vi ha avuto padre Antonio Loffredo. Il parroco della basilica di S. Maria della Sanità nota anche come la Chiesa di San Vincenzo o’ monacone, dopo essere succeduto nel 2001 al controverso quanto amato e rispettato (anche dallo stesso Loffredo che lo definì un profeta) prete anticamorra don Giuseppe Rassello ha plasmato, infatti, un’operosa realtà comunitaria –lui la chiama, rischiando l’anatema dei benecomunisti e dei paladini dell’assistenzialismo, la mia “sfida del fare impresa” e il “migliore investimento che sono riuscito a fare”- che si è spinta molto più avanti di quanto l’istituzione religiosa è solita delegare alle normali missioni pastorali. Presentato fuori concorso alla trentottesima edizione del Torino Film Festival che si sta svolgendo interamente in streaming, il documentario prodotto da Maria Carolina Terzi e Luciano Stella per Sky Arte, Big Sur e Mad Entertainment con il sostegno del Mibact e il contributo della Film Commission della Regione Campania è stato scritto dallo stesso regista insieme alla nota e stimata giornalista napoletana Conchita Sannino con il complesso e ardito intento di non fare del sacerdote una sorta di supereroe o, appunto, di santino, ma nello stesso tempo di sottolinearne e valorizzarne il percorso compiuto nel segno di una perseveranza progettuale, morale e psicofisica fuori dal comune. È anche per questo che –rischiando di scandalizzare i bigotti della separazione tra argomenti nobili e argomenti frivoli- il piano sequenza che parte dal campanile della chiesa, scende ad accompagnare don Loffredo mentre entra dalla porta della chiesa e s’incammina nella navata centrale deserta sino ad arrestarsi con lo stacco che lo presenta allo spettatore in un controcampo a figura intera ci ha ricordato la soluzione narrativa iniziale del recente e acclamato documentario “Mi chiamo Francesco Totti”.

Nell’ambito di una recensione per forza di cose cinematografica risulta, inoltre, assai apprezzabile che l’impianto dell’opera, la sua ambientazione, il coro polifonico dei personaggi e la collocazione dei dati e dei fatti nella cornice della cronaca abbiano reso pressoché inagibile la sia pure legittima invadenza dei tanti –opinionisti, sociologi, politici, storici, napoletanisti in servizio permanente effettivo e difensori patentati dell’”immagine”- che avrebbero relegato in un cantuccio ininfluente la valutazione delle componenti espressive ed emotive dell’opera. Le quali puntano, quasi sempre con efficacia (si registrano appena qualche caduta del ritmo, qualche battuta un po’ a effetto e qualche inutile presa di distanza dal neoverismo “crime” di Gomorra), sulle auto presentazioni dei fantastici ragazzi della cooperativa “La Paranza” che rievocando senza la solita enfasi piagnona gli intrecci, le contraddizioni gli ostacoli superati o ancora da superare, hanno saputo trovare nelle anse di un tessuto sociale più volte ferito e altrettante affondato nella rassegnazione uno spirito d’identità che ha permesso almeno a una parte dei loro sogni di avverarsi o, come dice con la dolce perentorietà e l’ottimismo razionale che lo caratterizzano don Loffredo, di “mettere il cuore in altre storie”. Tenendo sempre presente, però, scansando le lusinghe della retorica buonista, che nel mitico rione di Totò si deve ancora scegliere ogni giorno da che parte stare.

     

 

 

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