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Pubblicato il 27 Gennaio 2016 | da Valerio Caprara

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Quando il Cowboy si ribella…

L’America torna a interessarsi dei cowboy, ma la guerriglia dei nipotini di John Wayne rischia di passare in secondo piano per colpa dell’ultimo film di Tarantino. Mentre, infatti, le notizie dall’Oregon si fanno di ora in ora più drammatiche, “The Hateful Eight”, uscito negli Usa a Natale e prossimo allo start anche da noi, si diverte a divulgare una galleria dei cosiddetti “ragazzi delle vacche” che dell’aureola vintage non hanno proprio nulla e anzi esibiscono fisionomie e comportamenti tra il grottesco e il criminale. Non sarà magari l’identikit adatto ai protagonisti di quella che i media d’oltreoceano chiamano la rivolta dei ranchers, un movimento di protesta sorto da alcune settimane nella remota contea di Harney e autonominatosi “Citizens for Constitutional Freedom” dopo la condanna a cinque anni di prigione di due compagni di lotta che si erano ribellati all’esproprio coatto delle proprie terre da parte dello Stato (in realtà, secondo osservatori, come dire, più tarantiniani, perché avevano provocato una serie d’incendi per nascondere il bracconaggio sistematico). Asserragliati nel Malheur National Wildlife Refuge e capeggiati dai discendenti del veterano capopopolo Cliven Bundy, gli allevatori e i mandriani armati e organizzati hanno raggiunto lo scopo di comunicare al mondo d’essere stufi di pagare esose tasse per il pascolo e di dovere sottostare a una serie odiosa di divieti, ma hanno finito col subire prima un mese d’assedio e poi il risoluto assalto degli odiati agenti federali culminato ieri in una sparatoria conclusasi con il bilancio di un morto e sei arresti.

Il segnale dei malesseri che, nonostante la presidenza tendenzialmente ecumenica di Obama, investono le comunità e le situazioni più disparati del paese resterebbe tale, se le lotte libertarie e/o liberiste dei mini-terroristi con lo Stetson non avessero la forza di evocare uno dei capisaldi della mitologia yankee, l’archetipo primario della letteratura e il cinema western che, assieme a quello altrettanto basilare del pellerossa, ha ispirato studi memorabili a cominciare da quelli di Leslie A. Fiedler. Il saggista, narratore e antropologo, infatti, nella trilogia “Amore e morte nel romanzo americano”, “Aspettando la fine” e “Il ritorno del pellerossa” ha significativamente e profeticamente insistito sull’incredibile durevolezza di quei personaggi abitatori di territori inesplorati e selvaggi, non a caso destinati ad approdare in un presente in cui il thrilling dell’avventurosa corsa nel dominio dell’ignoto si esprime in nuove sconcertanti visioni e nuove traumatiche revisioni. La letteratura dell’Ovest, per essere soltanto sfiorata, pretenderebbe un approfondito saggio specialistico: in questo caso di beffardo revival postmoderno basta ricordare il ciclo del “Calzadicuoio” di James F. Cooper, i furori naturalistici di Jack London o i prolifici romanzieri Max Brand e Zane Grey che prima e dopo la seconda guerra mondiale imperversavano anche nelle nostre edizioni popolari. I film western, in particolare, sono “better than ever” proprio per la loro capacità di parlare dell’oggi attraverso metafore sempre riconoscibili, schemi che incarnano un patrimonio collettivo. “ Come un tempo lo furono le chansons de geste o i romanzi di appendice”, ha scritto lucidamente al proposito Goffredo Fofi, “e come quelli hanno avuto i loro Ariosto, i loro Cervantes, i loro Sue, i loro Hugo e i loro Dumas, il western ha avuto i suoi Ford, Walsh, Mann, Hawks o Aldrich”. Il discorso non è pretestuoso, però, perché quello che fu definito da Rieupeyrout il genere cinematografico americano per eccellenza non ha smesso mai di rinnovarsi, reinventarsi, ricrearsi magari sotto le mentite spoglie dei film di fantascienza: guardando e riguardando i titoli ormai classici di Peckinpah, Brooks, Penn, Sarafian oppure quelli recenti o recentissimi di Costner, Eastwood o Inarritu si percepisce benissimo come esso si riveli il luogo di una ripetizione infinita, dell’eterno ritorno dei riti che consacrano un ordine senza sosta minacciato e senza sosta ristabilito. Un mondo fluido che l’eroe e persino l’antieroe (come ha precisato il nostro maestoso Sergio Leone) percorrono senza sosta nel tentativo di pervenire a quello dell’epopea classica occidentale “chiuso e perfetto”. Se dunque ritorniamo al tragicomico episodio di cronaca messo in scena nell’Oregon, potremmo trarne considerazioni troppo amare, lamentose o passatiste: un antidoto plausibile è riconoscere come il western classico o revisionista non abbia fatto che inseguire un’ipotetica purezza e non sia mai arrivato a restaurarla. Allo stato dei fatti, allora, sembra ancora più logico come il cinema si sforzi di confessare d’essere condannato a fare dell’epopea originaria l’oggetto di un’instancabile e talvolta paradossale imitazione. Tarantino preme il pedale sulla crudezza esasperata e il ghigno manipolatorio dell’adepto, l’Ang Lee di “I segreti di Brokeback Mountain” la butta in ridicolo costringendo i virili cavalieri a tirarsi giù i jeans per accoppiarsi sui prati del Wyoming, il più modesto Underwood di “Scappo dalla città (La vita, l’amore e le vacche”) ricuce meglio di tutti il filo di un tema che può pienamente rivivere più nell’ironia che nella nostalgia. Specie quando il newyorkese Billy Crystal osa tramandare in questi termini l’icona di Jack Palance: “Quello è il duro più duro che abbia mai incontrato in vita mia. Avete visto che faccia di cuoio? Se non fosse per gli occhi sembrerebbe un mocassino!”.

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