Recensioni

Pubblicato il 8 Agosto 2021 | da Valerio Caprara

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Marx può aspettare

Marx può aspettare Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario: La famiglia Bellocchio alle prese con la rievocazione dell'antico trauma del suicidio di Camillo, gemello dell'oggi ottantaduenne regista Marco.

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Il piacere e l’orgoglio. La Palma d’oro alla carriera conferita dal Festival di Cannes a Marco Bellocchio ne ha, certo, confermato il prestigio e l’autorevolezza, ma non è stato certo secondario l’impatto ottenuto dall’anteprima fuori concorso del docufilm “Marx può aspettare”. Sul quale, invece, si sono alternate le recensioni autorevoli e acuminate con quelle generiche e cerimoniali: la personalità dell’ottantaduenne piacentino, una volta lasciate trapelare le spine profonde del vissuto, ha messo in scena un percorso scevro da rancori e polemiche di basso conio, ma ha indirettamente e inevitabilmente evidenziato gli atteggiamenti censori e le letture fuorvianti riservategli in altre stagioni dall’entourage cinematografico nazionale. Quando, per intenderci, i suoi tormenti psicologici e la sua foga militante lo condannarono a dimorare in una sorta di area di decontaminazione, posizionata a grande distanza dal circo massimo riservato ai (presunti) trionfi dei protégé del regime politicamente corretto. Acqua passata? Non diremmo affatto.

 

L’esperienza della visione di “Marx può aspettare”, volendo essere franchi come lo è sempre l’autore, non assomiglia a un semplice  passatempo né a un rito cinefilo: la costruzione dell’asse narrativo attraverso un complesso ma solido intarsio di interviste originali, la maggior parte delle quali realizzate a Piacenza nel corso di un pranzo conviviale del 2016 al Circolo dell’Unione fondato dal padre, foto, filmini di famiglia, lettere ritrovate, spezzoni documentari e inserti tratti da film culto come “I pugni in tasca”, “Salto nel vuoto”, “Gli occhi, la bocca” non concede sconti, cattura l’attenzione in progressione, non arretra al cospetto di testimoni scarsamente comprensibili e/o dotati di una cantilena dialettale straniante e nel contempo suadente e si giova di un commento fuori campo improntato al mosaico mentale/stilistico inconfondibilmente bellocchiano. Il protagonista assoluto, la presenza-assenza illuminante, com’è stato ampiamente divulgato, è Camillo, il fratello gemello di Marco morto suicida nel dicembre del ’68 all’età di ventinove anni: “quel manicomio che era la nostra casa” rivive, così, senza deragliare neppure per un secondo nel pietistico o nel ricattatorio, bensì istituendo un legame profondo, a tutti gli effetti linguistico, con i temi del proprio cinema, rimettendo in piena luce angolature falsificate o autocensurate nonché atteggiamenti mantenuti e comportamenti ostentati che fanno comprendere allo spettatore presente e futuro come il particolare può (quantomeno) ambire a rappresentare l’universale. Senza le smancerie, i vezzi autoindulgenti, i velleitarismi dilettanteschi che imperversano anche ai piani alti letterari del genere.

Camillo, avatar provinciale di James Dean, riemerge così in filigrana audiovisiva – decisivo a questo proposito l’eccezionale accompagnamento musicale firmato dal compianto Ezio Bosso- nel ruolo di fratello tanto amorevole quanto in tutto e per tutto agli antipodi del duro Piergiorgio, fondatore con Goffredo Fofi e Grazia Cherchi della mitica rivista culla del pensiero sessantottino “Quaderni Piacentini” (“Chissà se almeno ci capisce qualcosa lui” dicevano familiari e conoscenti che faticavano a leggere la rivista), lo smaliziato ex sindacalista Alberto (“a quelli che non sapevano fare niente, gli dicevano va a fare il sindacalista”, parole sue) e le sorelle Letizia e Maria Luisa, religiosissime sulla scia della madre. Proprio a Marco, già trascinato nel tripudio ideologico dell’epoca, che gli consigliava distrattamente e sbrigativamente di risolvere i malesseri immergendosi nella sua stessa trance, diede infatti la risposta tranchant in apparenza, ma, quella sì davvero “rivoluzionaria”, tramandata dal titolo: reazione più interessante e articolata delle sparate demagogiche sulla falsariga della famosa invettiva di Gide “Famiglie! Vi odio! Focolari chiusi; porte serrate” molto in voga in quei tempi tanto entusiasmanti quanto effimeri e forieri di distorsioni micidiali.

Più che limitarsi a dialogare con lo spettatore Bellocchio -ecco il dettaglio decisivo inserito con suadente fermezza- riesce a interrogarlo trasformandosi in un detective dei sentimenti occultati o rimossi: basti pensare agli squarci d’intensità emotiva mozzafiato come la rievocazione del ritrovamento del corpo senza vita di Camillo o all’ultima sequenza, l’unica chiaramente di finzione, in cui la raffinatezza della mano e dell’occhio del regista si fanno più spregiudicati e pungenti e ci permettono d’intravedere la ricchezza del patrimonio appena dispensato… Nel suo cinema definitivamente moderno, l’immagine-tempo, non è più né empirica né metafisica, è “trascendentale” nel senso kantiano del termine: il tempo, cioè, viene fatto fuoriuscire dai suoi cardini convenzionali e distillato allo stato puro sullo schermo.

MARX PUÒ ASPETTARE

DOCUFILM –  ITALIA 2021

Regia di Marco Bellocchio. Con Alberto Bellocchio, Letizia Bellocchio, Marco Bellocchio, Maria Luisa Bellocchio, Piergiorgio Bellocchio, Luigi Cancrini, Padre Virgilio Fantuzzi

     

 

 

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