Recensioni

Pubblicato il 2 Marzo 2016 | da Valerio Caprara

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Lo chiamavano Jeeg Robot

Lo chiamavano Jeeg Robot Valerio Caprara
Emozione
Qualità
Scrittura
Recitazione

Sommario: Uno dei titoli più intelligenti, innovativi e divertenti degli ultimi anni.

4.5


Epico, romantico, crudo, grottesco… Imperdibile.

A Roma, oggi: Enzo Ceccotti da Tor Bella Monaca è un selvatico e solitario balordo che rischia la galera ogni giorno. Sta per morire, ma invece scopre che il suo corpaccione maldestro si ritrova suo malgrado dotato di poteri incommensurabili. Potrà sopravvivere e per di più inseguire sogni proibiti, facendo i conti, però, con quelli svitati di Alessia, ragazza cresciuta nel corpo ma non nel cervello e quelli megalomani dello Zingaro, psicotico capobanda che tra una carognata e l’altra si diverte a cantare travestito da Nada o Anna Oxa… Anche chi ha perso ogni speranza nei confronti del cinema italiano potrà verificare che nelle sale è arrivato uno dei titoli più intelligenti, innovativi e divertenti degli ultimi anni: “Lo chiamavano Jeeg Robot” del quarantenne Gabriele Mainetti, già apprezzato come autore di corti, recupera lo spirito dei manga giapponesi degli anni ’70 e ’80 e le spavalde lezioni di fantasy impartite ai bambini e agli adolescenti di allora dalle maratone tv di Jeeg Robot, Goldrake e Mazinga, nonché gli aggiornamenti postmoderni alla “Tetsuo” di Tsukamoto, per tramandare la nuova leggenda del primo supereroe coatto di una cinica metropoli odierna.

In sinergia con gli sceneggiatori Guaglianone e Menotti, il regista è riuscito, infatti, nel compito di fondere le diverse e talvolta contrastanti tonalità della storia in una partitura che non assomiglia a nessun’altra e spinge il pubblico sulle montagne russe d’immagini, azioni e dialoghi che quasi tutti si spingono sulla strada della sorpresa. Oltre alla cura formale, a cui va aggiunta la buona qualità degli effetti speciali low budget, il film vanta poi interpreti immuni dai cliché indossati a rotazione dalla compagnia stabile dei commedianti autarchici: Claudio Santamaria, con la sua intensa catarsi fisica e psicologica; Luca Marinelli, scatenato nelle acmi cult eppure attento a rendere gli eccessi del suo personaggio sempre ambigui ed imprevedibili; Ilenia Pastorelli, rivelazione del cast rubata a un’edizione del Grande Fratello, in grado di ricordare con la sua derelitta innocenza certe incarnazioni della Masina care a Fellini. Senza contare il bonus garantito del resto del cast, una schiera di partecipi maschere (Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei, Antonia Truppo, Salvio Esposito) che inoculano con una dose d’autoironia i germi di “Romanzo criminale” in “Gomorra”. Se ci voleva, insomma, un bel po’ di fegato nello scavalcare la rigida separazione tra cinema “vero” e cinema “falso” chiedendo una sospensione della credibilità che peraltro permetta di non perdere contatto con la realtà circostante, il premio è costituito da un film che non a caso ha strappato ripetute standing ovation al pubblico fresco, vivace e cinefilo dell’ultimo festival di Roma. Il finalissimo serve al film come l’acqua al terreno e pretende che gli spettatori non si alzino e le luci non si accendano anticipatamente: Corri ragazzo laggiù/vola tra lampi di blu/corri in aiuto di tutta la gente/dell’umanità…

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