Recensioni

Pubblicato il 5 Settembre 2018 | da Valerio Caprara

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L’AMICA GENIALE – La Serie Tv

Lenù e Lila si materializzano nei corpi e nei volti di Elisa Del Genio e Ludovica Nasti ed è come se “L’amica geniale” uscisse un’altra volta, ricominciasse a suscitare amori e devozioni, riprendesse a mietere primati, premi e lodi. Le due protagoniste che diventano inseparabili in prima elementare e si preparano senza saperlo a irradiare dal microcosmo del Rione Luzzatti della Napoli all’alba dei Cinquanta una prolungata sinfonia di chiaroscuri – fisici, psicologici, sociali, culturali – in quelle zone più delicate della fiction che si prefiggono di amalgamare realismo estremo e trasfigurazione ancora più estrema, tanto da spingersi nei territori tenebrosi del destino e della storia, a schermo spento non saranno, in effetti,dimenticate da nessuno spettatore. Meravigliose creature in bilico costante tra naturalezza e applicazione, la biondina finto-fragile propensa a dare il giusto peso al dubbio e la paura e la bruna finto-perfida quasi scaturita dalle irridenti contorsioni di un bronzo di Gemito che costruiscono con stupore, con talento e con dolore le rispettive personalità affrontando senza passaggi protetti o vezzi accattivantil’occhio freddo e indiscreto della cinepresa sanciscono subito un grande merito del regista e cosceneggiatore della serie. Saverio Costanzo, in fondo, potrebbe già dichiararsi vincitore della notevole sfida, specialmente agli occhi di chi, come noi, ritiene le prime ottanta pagine del primo volume della saga le più intense, significative e durature della quadrilogia della Ferrante.

Non c’è nessuna ragione perché si debba sottovalutare questo risultato, ma è pure vero che l’impresa targata HBO-RaiFiction-TimVision coltiva ambizioni a largo raggio e che le motivazioni ondivaghe e inconfessabili che tengono in bilico costante la prima linea del copione hanno preteso molto dall’ambientazione, dalle tecniche narrative e dal coinvolgimento progressivo dei numerosi personaggi narrati in flashback e prima persona dall’ormai anziana Lenù (con l’ausilio della voce off alquanto forzata di Alba Rohrwacher). Su queste note le prime due puntate presentate ieri fuori concorso rivelano anche alcune debolezze: nonostante l’indubbia dovizia di mezzi, innanzitutto, la ricostruzione scenografica del rione di marca razionalista costruito tra il ’14 e il ’25 e sopravvissuto anche alla revisione generale dell’edilizia popolare attuato dall’ingegnere Cosenza nel dopoguerra risulta un po’ fredda, quasi la quinta di una scena teatrale e più volte sembra di percepire la presenza della troupe al di qua dello schermo mentre ordina i ciak e fa muovere gli attori in sincronia all’azione. E’ indubbio che le vicende filtrate dalle sensazioni ondivaghe delle amichette debbano riscontrare la ghettizzazione occulta di un quartiere che si autoalimenta e autoriproduce, però a volte sembra che l’apporto degli altri cruciali personaggi, sia pure incarnati da bravi professionisti (una menzione triste quanto meritata va ovviamente riservata al Don Achille interpretato dall’appena scomparso Pennarella), ne risenta e tenda alla routine del dialetto edulcorato e iltono didascalico da fiction casareccia bozzettistica.

Certamente bisognerà aspettare lo svolgimento delle prime otto puntate per rifinire un giudizio congruo, ma per ora si può dire che “L’amica geniale” versione piccolo schermo sia un’opera dignitosa e quindi, di fatto, inferiore alle aspettative giustamente altissime perché lo stile non regge le continue occasioni di violenza emotiva connaturate al contesto proletario attraversato da comportamenti familisti e maschilisti durissimi ancorché non ancora precipitato negli abissi dell’emarginazione e del consolidarsi del potere criminale prefigurati dall’avvento e gli sviluppi del miracolo economico anni Sessanta. Controproducente al massimo, per di più, ci è sembrata la chiamata alle armi neorealista contrassegnata dalla citazione della corsa di Anna Magnani falciata dai mitra nazisti in “Roma città aperta” proprio perché la componente più vivida e riuscita dell’insieme rimane, al di là di quest’inquadratura un tantino imbarazzante, l’immanenza sulle avventure e disavventure del popolo partenopeo non ancora “plebeizzato” di una componente mitico-simbolica, se non proprio noir (la caduta in cantina e la sparizione delle bambole, l’apparizione vampiresca di Don Achille, la follia d’amore ariostesca della povera Melina).

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