Recensioni

Pubblicato il 3 Marzo 2023 | da Valerio Caprara

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LAGGIÙ QUALCUNO MI AMA**

Di certo tra la congerie di rievocazioni –filmate, scritte, parlate, celebrative, istituzionali- della ricorrenza troisiana quella di Martone è la più articolata, la più ricca, la più autoriale e la più personale. È un film a misura intera, insomma, che ha la sua collocazione storica, la sua trama, la sua messa in scena, le sue interpretazioni, il suo montaggio, la sua colonna sonora, i suoi effetti, i suoi momenti thrilling, quelli romantici e ovviamente quelli comici. Anna Pavignano musa di creatività e a lungo anche d’amore di Massimo, è stata pour cause decisiva per elaborare “mano nella mano” col regista un percorso adeguato alla continua espansione dopo la precoce scomparsa di quella che Salvatore Battaglia ha definito mitografia del personaggio. Proprio il meccanismo drammaturgico attivato e sviluppato senza diversioni dall’inizio alla fine –non importa se attraverso sequenze girate ex novo, spezzoni di film e di programmi tv, immagini d’archivio, interviste o letture fuori campo di documenti autografi- prevede un dialogo libero con lo spettatore, non vincolato cioè a un’ufficialità da wikipedia. Di conseguenza le considerazioni più svariate, comprese quelle critiche, possono aderire allo stesso programma ed entrare, così, in rapporto dialettico con le riflessioni espresse per via diretta o indiretta dal docufilm, tanto più se si concorda sul riconoscimento della qualità del progetto che lo ha concepito e lo alimenta. Non tutte le opinioni di vecchi e nuovi fan e di altrettanti e spesso prestigiosi testimoni, per esempio, sono equivalenti e qua e là schizza fuori dalla sapiente e fluida impaginazione qualche connessione non proprio convincente. Come quella istituita da Martone stesso –assai fotogenico e disinvolto nel ruolo preminente che si è scelto- che accosta il ciclo di Troisi a quello del Doinel truffautiano (più avanti Goffredo Fofi riporta più credibilmente il paragone dalla Nouvelle Vague agli sketch anni 30 di Eduardo con Peppino); quella di Picone a cui sfugge il paragone con Chaplin (più avanti meno temerariamente Sorrentino sostiene che per gli artisti lo stato schivo, “lento” e apatico di Troisi è forse quello ideale per esprimersi); o anche quella dei titoli di testa che sembrano insistere su un clima dell’epoca iper caratterizzato da antagonismi, manifestazioni e scioperi (mentre gli anni 80 in cui si sono usciti quasi tutti i suoi film sono stati a torto o ragione definiti quelli dell’edonismo reaganiano e del ripiegamento nel privato). Decisamente più appropriati sembrano la maggioranza dei capitoli incentrati sul rapporto con il cabaret e implicitamente il teatro d’avanguardia (personaggi e interpreti lo stesso Martone, Servillo, Moscato, Ruccello), le donne (reali e di finzione), Pino Daniele e la sua sensibilità rock, jazz e blues (quella più in sintonia con la sua cifra attoriale tutta frammenti e soprassalti), la napoletanità trattata con un rispetto che non diventa mai subordinazione o il proprio fisico così bello e slanciato, così fragile e minacciato. In conclusione, si spera provvisoria perché quest’omaggio con tutto ciò che di biograficamente esaustivo include, sarà diffuso e visto fuori dai confini nazionali più di quanto è stato finora concesso alla sua opera, ci sembra più che forzato, inutile proclamare Troisi regista “di speciale grandezza”. Non tanto perché sulla caratura di alcuni dei suoi film c’è ancora da discutere, ma perché la sua vera grandezza è stata e resterà quella di un magico cortocircuito arte-vita che non può essere tramandato da una qualifica di categoria.  

 

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