Recensioni

Pubblicato il 12 Giugno 2020 | da Valerio Caprara

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L’affare “Via col vento” e i tic dei nostrani film d’autore

Qualche film fa Spike Lee, grande regista talvolta ottenebrato dalla vis polemica, se la prese con il cult movie “Nascita di una nazione” (1915) a causa dell’approccio storico razzista di D. W. Griffith (al cui proposito, tuttavia, così si espresse Ejzenstejn: “nulla può togliergli la gloria di essere stato uno dei veri maestri del cinema americano”). In questi giorni, sulla spinta delle manifestazioni di rivolta provocate in America e nel mondo dalla brutale uccisione di un pregiudicato nero da parte di un poliziotto, la proposta di messa al bando si è rivolta invece contro “Via col vento” (1939), il film in assoluto più amato di sempre dal pubblico nonché il capostipite del melodramma-affresco caratterizzato dall’irripetibile mix di recitazioni glamour, respiro narrativo titanico, sentimenti fiammeggianti e spudorato ma anche cinico romanticismo. Si potrebbe reagire con una scrollata di spalle per molti buoni buoni motivi: il kolossal ha puntualmente resistito nel tempo agli attacchi più diversi e violenti, a cominciare dalla classificazione di “Escluso” affibbiatogli dal Centro Cattolico Cinematografico quando fu distribuito in Italia dieci anni dopo l’embargo instaurato dal fascismo morente nei confronti di Hollywood; la radicale revisione operata dal film, sia pure in un contesto puramente spettacolare, della contrapposizione manichea tra i nordisti bravi liberatori e i sudisti cattivi schiavisti che potrebbe indurre a scambiare di postazione gli indignati odierni; qualsiasi tipo di censura confligge inesorabilmente proprio col diritto alla libertà delle opinioni e dello spirito critico del singolo cittadino che i fanatici affermano di volere tutelare; da anni ci si era finalmente accordati sulla convinzione che schiacciare la creazione artistica nel mortaio “sociale” fosse ormai diventato un triste retaggio dell’estetica stalinista; a lanciare l’insana proposta è stata l’emittente televisiva via cavo e satellitare Hbo, sorella industriale di Amazon che ha vergognosamente censurato il genio di Woody Allen ecc.

Resta peraltro inquietante la sensazione che, a prescindere dai contingenti e certo gravi risvolti di cronaca, il cinema italiano costretto alla difensiva dal terribile ko subito dalla pandemia e per nulla tranquillizzato dall’imminente riapertura delle sale -che per tutta una serie di motivi si sta profilando come un ulteriore flop- stia troppo spesso cercando di afferrare per la coda le folate epocali del politicamente corretto. Ad esclusione di “Favolacce”, infatti, la cui indubbia brillantezza di stile si traduce tuttavia nell’ostentata repulsione comunicata dai desolati protagonisti, i titoli che esibiscono qualche velleità autoriale e ambiscono a incidere sulla percezione degli spettatori del proprio rapporto col mondo quanto più appaiono fragili o irrisolti, tanto più ribattono sugli stessi tasti di supporto. In “Bar Giuseppe”, per esempio, disponibile sulla piattaforma di RaiPlay e diretto da Giulio Base ispiratosi al libro di Monsignor Ravasi “Giuseppe, il padre di Gesù”, i suggestivi paesaggi pugliesi e le bellurie etnografiche di una terra povera ma solidale accompagnano lo scorbutico e stropicciato incedere di Ivano Marescotti nel ruolo del gestore di un bar che a dispetto delle disgrazie riservategli dalla sorte persevera, sfacchina e soprattutto assume come cameriera e poi sposa una ventenne profuga africana che ha un terzo dei suoi anni. L’apologo laico, ma di chiare allusioni evangeliche evocherà con apprezzabile pudore il miracolo della nuova Madre divina, ma il tutto, già di per sé artificioso e forzato, è inutilmente banalizzato dalla sottolineatura di prammatica dell’ostilità razzista della comunità contro la straniera.

Difetti che si manifestano anche in “Abbi fede”, il remake di Giorgio Pasotti della commedia nera “Le mele di Adamo” del danese A. T. Jensen (2005) che fa intravedere qualche merito di estro in una composizione purtroppo caratterizzata dall’implausibilità della trama e il cattivo gusto sparso a piene mani nelle performance della finta “famiglia” gravitante attorno a una parrocchia sperduta tra le montagne dell’Alto Adige. Il principale personaggio è Claudio Amendola travestito da picchiatore fascista che si contrappone col suo tetro e taciturno cipiglio al prete Ivan, interpretato dallo stesso Pasotti in tonalità eccessivamente farsesche, ma anche qui l’apologo del bene e il male che si sovrappongono sino a unificare le prerogative in fin dei conti demenziali di qualsiasi fede pensa di uscire dallo stallo con la denuncia dell’avanzata europea e forse mondiale dell’ultradestra. Missione certamente apprezzabile, ma decisamente insufficiente a conferire al film l’elisir dell’originalità e la gradevolezza.

 

BAR GIUSEPPE

COMMEDIA –  ITALIA 2020  **

Regia di Giulio Base. Con Ivano Marescotti, Virginia Diop, Nicola Nocella, Selene Caramazza

 

ABBI FEDE

DRAMMATICO- ITALIA/AUSTRIA 2020 *

Regia di Giorgio Pasotti. Con Claudio Amendola, Giorgio Pasotti, Roberto Nobile, Robert Palfrader       

     

    

 

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