Editoriali

Pubblicato il 28 Febbraio 2017 | da Valerio Caprara

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La saga del politically correct

Ci sta un nero, un immigrato e un gay… Sarà perdonata questa battuta alquanto scorretta che sta circolando a mo’ di epigrafe sulla 89esima edizione degli Oscar? Può darsi di sì perché, a prescindere dai barzellettistici requisiti che sarebbero ormai necessari per accaparrarsi una statuetta, la cerimonia finale è appena passata alla storia come una delle più insulse e goffe mai andate in scena. Certo tutti sapevano, dalla Groenlandia al Sudafrica, che le corporazioni signore e padrone dei centri di potere di Hollywood si stavano rigirando tra le mani due patate bollenti, quella della polemica dello scorso anno sulle nomination egemonizzate dai bianchi (#oscarsowhite) e quella delle bordate da sparare in mondovisione contro l’arcinemico Pel di Carota insediato alla Casa Bianca. Peccato però che le soluzioni prescelte per cavarsi d’impaccio, improntate a un mix d’ipocrisia radical chic e fraintendimento artistico, abbiano oltretutto partorito un verdetto malfermo, paradossalmente adatto solo a quelli decisi da sempre a non aspettarsi nulla da una “baracconata”.

Tanto per iniziare “La La Land”, anche per chi come noi l’ha apprezzato discretamente, non era ed è un capodopera e sei statuette anziché quattordici gli si confanno assai meglio. Del talento un po’ ruffiano del giovanissimo regista Chazelle si giova, infatti, lo spirito insieme romantico e prosaico dell’amore ai tempi della crisi, lo slancio delle illusioni giovanili che rende incantevole persino lo skyline di Los Angeles, l’andatura di un musical che non vuole e non può gareggiare con lo splendore dell’età d’oro ma si limita amaramente a rimpiangerlo. Però estrarre dal cilindro di candidature già di per sé non autorevoli l’amorfo “Moonlight” è stato un vero colpo basso, anche perché la storia del riscatto dell’afroamericano bullizzato perché povero e omosessuale imposta ogni sequenza e ogni dialogo sulla sofferenza trattata come genere pedagogico e mai come libero sentimento. Sulla stessa linea ma con maggiore vitalità estetica si situavano, del resto, sia il superteatrale “Barriere” grazie a cui la Davis è considerata migliore attrice non protagonista, sia il fluviale migliore documentario “OJ: made in America”. Mentre non è possibile parlare di delusione per la figura da comparse a cui sono stati condannati “Hell or High Water” e “Il massacro di Hacksaw Ridge”, ottimi prodotti di genere a cui quasi mai è consentito il podio in quanto inadatti a pulire le coscienze degli smaliziati votanti dell’Academy. Uno dei pochi centri della cinelotteria è il buon risultato ottenuto da “Manchester by the Sea”, neanche questo, per la verità, un titolo indiscutibile a causa dell’eccessivo e iettatorio carico di sventure accollato al pure eccezionale protagonista Casey Affleck, ma comunque sorretto da un segno filmico raffinato e sentito. Accanto al fratello bravo del popolare Ben si erge (si fa per dire) Emma Stone, meritata migliore protagonista solo perché, secondo noi, giustamente impressiona lo spettatore il suo palese e titanico sforzo per conquistare con le unghie e i denti intensità e glamour disponendo di una presenza oggettivamente sgraziata e sgradevole. L’Italia deve accontentarsi di svettare nella categoria hair & make-up e in quella del cortometraggio d’animazione, mentre “Fuocammare”, certamente non il migliore documentario dello specialista Rosi, aveva già ottenuto il massimo dalla valanga delle interviste, le recensioni e i servizi dedicatigli dai media anche in virtù della sponsorizzazione –questa sì “sopravvalutata”- della grande Meryl Streep. “Il cliente” è un accettabile migliore film straniero e dispiace solo che il regista iraniano Farhadi nel motivare la propria assenza come atto di protesta contro le misure restrittive in tema di passaporti e ingressi negli Usa nei confronti delle persone provenienti da sette nazioni islamiche adottate (per tre mesi) dal governo Trump non abbia affiancato un pari grido di sdegno contro i regimi dittatoriali, oscurantisti e teocratici al potere negli stessi paesi.

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