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Pubblicato il 30 Dicembre 2015 | da Valerio Caprara

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La morte di Ferzetti

Si sarà scritto mille volte, eppure mai come in questo caso sembra inoppugnabile la definizione di affascinante signore dello schermo. Gabriele Ferzetti, morto ieri a Roma dove era nato il 17 marzo 1925, non è stato un divo del nostro cinema, ma qualcosa di più: indiscusso professionista del palcoscenico, ai film ha costantemente regalato caratteri compositi e tormentati sia che seguisse l’estro di registi importanti, sia che si dedicasse con entusiasmo ai giovani emergenti, sia che accettasse di servire il pubblico dando il meglio di sé nei film di genere. Dopo avere debuttato al cinema ancora studente, in effetti, è già una presenza costante e affidabile in una messe di titoli popolari che vanno da “I miserabili” di Freda a “La provinciale” di Soldati, dove interpreta il ruolo del marito della protagonista Lollobrigida grazie a cui vince il Nastro d’argento ’52-’53.

La sobrietà d’espressione, il lavoro di cesello sui gesti e la fotogenia raffinata e sottilmente inquieta favoriscono il fondamentale incontro con Antonioni, il più moderno e audace degli autori italiani che tra il ’55 e il ’60 gli affida i ruoli di due tipiche vittime del rarefatto disagio esistenziale di cui è maestro, il pittore di “Le amiche” e l’architetto di “L’avventura”. Mentre continua a vivere felicissime esperienze teatrali (non a caso uno dei suoi primi impegni sul palcoscenico è firmato da Visconti, le compagnie a lui storicamente care sono del calibro della Morelli-Stoppa o della Pagnani-Villi-Foà e con Missiroli, la Padovani e la Proclemer raggiunge la piena maturità d’interprete), sono numerosi i cult-movie impreziositi dalla sua bellezza elegante, vagamente cinica e “machista” con giudizio: l’amante di Anna di “La lunga notte del ‘43” di Vancini, il magnate delle ferrovie paralitico di “C’era una volta il West” di Leone, il vanesio e imbelle intellettuale di sinistra del profetico “Grazie zia” di Samperi. Certo, a scorrere l’elenco dei circa centoventi film a cui ha preso parte (compreso, nel ’69, lo 007 “Al servizio segreto di Sua Maestà”) ai cine-moralisti verrà da dire che si è concesso a troppe produzioni commerciali; quando, invece, la voglia di mettersi alla prova e la mancanza di boria professionale, spese anche nell’ambito della migliore produzione tv, tramandano uno stakanovista del glamour capace di passare senza cadute da Carné (“Tre camere a Manhattan”) a Huston (“La Bibbia”), da Bolognini (“Un bellissimo novembre”) a Costa-Gavras (“La confessione”), dalla Cavani (“Il portiere di notte”) a Squitieri (“L’avvocato De Gregorio”), fino al 2009-10 dei novissimi Guadagnino (“Io sono l’amore”) e Leo (“Diciotto anni dopo”).

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