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Pubblicato il 23 Marzo 2010 | da Valerio Caprara

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Kurosawa – Il centenario della nascita

Il 23 marzo 1910, quasi di concerto con l’affermazione del cinema come arte popolare, nasceva Akira Kurosawa. Davvero non si tratta di un anniversario come un altro, magari riservato al culto degli esperti: il regista giapponese, scomparso a ottantotto anni, resta uno di quei giganti che nei riguardi del cinema rappresenta suppergiù quello che per la cultura rappresenta Shakespeare. Quando nel settembre dell’81 lo intervistammo per uno speciale di RaiTre su una terrazza dell’Excelsior Vittoria di Sorrento, ci apparve esattamente come i suoi film ce lo avevano fatto immaginare: alto, ieratico, imponente, paziente nel fronteggiare il fervore del cinéfilo e imperturbabile nel gestire, tenendo l’eterna sigaretta tra le dita, anche le risposte più pregnanti e coinvolgenti. La retrospettiva completa della sua opera, accompagnata dal catalogo curato da Mario Verdone, contrassegnò senza dubbio un evento memorabile degli Incontri Internazionali del Cinema, ma per una diffusa e finalmente decorosa conoscenza italiana del “”Tenno””, l’Imperatore, bisogna risalire allo strenuo attivismo di Aldo Tassone che prima con i recuperi televisivi, poi negli sviluppi del tour europeo per l’uscita di “Ran”, quindi grazie al convegno di Fiesole dell’86 e infine nell’instancabile produzione di quaderni e fascicoli sfociata nella storica monografia del Castoro Cinema (di cui è oggi disponibile la quarta edizione aggiornata), ci ha permesso di non restare a bocca aperta davanti alla successiva consacrazione decretata dai giovani leoni di Hollywood Coppola, Scorsese e Spielberg.

I dati, per così dire, oggettivi sono innumerevoli: Leone d’oro e Oscar per “Rashomon”, Leone d’argento per “I sette samurai”, Oscar per “Dersu Uzala”, Palma d’oro per “Kagemusha”, Leone d’oro e Oscar alla carriera ecc. Ma c’è qualcosa che conta di più e cioè la lezione di stile e di personalità che ha trasmesso, oltre che a tanti autori importanti, all’umanesimo contemporaneo, sollecitato da trentuno titoli (da “Sugata Sanshiro” del ’43 a “Madadayo – Il compleanno” del ’93) a riconoscere, discernere e controllare l’inevitabile quanto ambigua dialettica tra Bene e Male. Il suo magistero non sta solo nella libertà di cineasta a 360°, capace d’ispirarsi a Dostoevskij come al western, al neorealismo come a Freud, al dramma kabuki come ai giallisti americani; ma soprattutto nella forza –che gli fu aspramente rinfacciata, tanto da spingerlo alle depressioni e a un clamoroso tentativo di suicidio- di farsi pontiere tra l’orgoglio isolazionistico patrio e gli slanci cosmopoliti della civiltà e dell’ethos occidentali. Un prometeo dell’arte chiave del Novecento, insomma, che sa incendiare gli occhi e gli animi sia quando scatena l’istrionismo di Toshiro Mifune o i coreografici assalti dei samurai, sia quando ricama sullo schermo le pene dei diseredati di Tokyo o quelle dell’anziano professore che ha smarrito il suo amatissimo gatto.”

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