Recensioni

Pubblicato il 3 Febbraio 2020 | da Valerio Caprara

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Judy

Judy Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario: Judy Garland, diva dalle doti artistiche enormi ma afflitta da contrarietà personali e professionali devastanti, cerca invano di risolvere i propri problemi esibendosi in una memorabile tournée londinese destinata purtroppo a essere l'ultima.

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I critici, al contrario degli spettatori che possono coltivarne a volontà, non dovrebbero indulgere alle idiosincrasie. Però dobbiamo confessare che abbiamo a lungo detestato l’attrice texana Renée Kathleen Zellwegwer perché troppo identificata nella pingue e disconnessa protagonista di “Il diario di Bridget Jones”, un’interpretazione tutta mossette e smorfie che batteva largamente in antipatia il personaggio omonimo descritto nelle pagine del romanzo della Fielding da cui il film è tratto. Adesso che è candidata all’Oscar come migliore protagonista femminile di “Judy” dobbiamo, invece, renderle l’onore delle armi perché, nonostante appaia stravolta dal botox, è riuscita a limitare il manierismo esibizionista o, meglio, a renderlo funzionale a una full immersion nella fase terminale della vita della grande e sfortunata Judy Garland che in certi momenti sfiora il sublime. Non c’è niente di originale o sperimentale, va subito detto, in questo biopic parziale ma struggente, in cui il pathos riesce a divincolarsi dai consumati stereotipi della parabola della diva autodistrutta dall’alcol, le pillole, troppi mariti e figli nonché una drammatica e sorprendente carenza di danaro. La trama, dopo il prologo in cui Judy, bruttarella ragazza di provincia dotata di una voce da contralto eccezionalmente vellutata viene ghermita dal rapace tycoon Louis B. Mayer che le impone una serie di droghe per dormire e non mangiare, si concentra, infatti, nel 1968 quando la star madre della futura star Liza Minnelli, accetta di lavorare a Londra in uno show restato memorabile all’allora famoso “The Talk of the Town”: tutto sembra congiurare contro la sua voglia di resistenza e rinascita, dai manager avidi e assillanti alla penosa nostalgia di casa, ma, come da copione, lo “show must go on”, l’ex bambina prodigio non vorrà né potrà più fermarsi mentre il dolore trasforma le interpretazioni canore eseguite tra i tavoli del cabaret in una sorta di calvario artistico, oscillante tra diluvi di applausi commossi e momenti sporcati dalle volgari disapprovazione di un pubblico di buzzurri.

Non si sa, tra l’altro, se sarà percepito da molti o pochi spettatori (anche perché il prudente regista Goold ci gira al largo) il ruolo della meravigliosa canzone “Over the Rainbow” ovvero lo stigma del fantasioso musical “Il mago di Oz” del 1939 che, raccontando il balletto ipnotico di Dorothy e i suoi ambigui compagni di sogno come la Strega dell’Ovest, il Leone, l’Uomo di latta e lo Spaventapasseri sarebbe diventato una sorta di inno segreto dell’allora occultata comunità internazionale omosex tanto da fare definire l’attrice e cantante allora diciassettenne la “Elvis Presley dei gay”. Con un piglio che consola il cinefilo, ritrovatosi nell’atmosfera vintage dei melodrammi colorati ed estremistici degli anni Trenta/Quaranta hollywoodiani, ma anche il pubblico stanco dei kolossal uniformati dall’algido virtuosismo degli effetti speciali digitali, “Judy” è uno di quei titoli che ha, proprio grazie alle suddette componenti, la fortuna e la forza di tramutare i difetti in virtù, la convenzionalità in piacere dello sguardo, il mimetismo in verismo fantasmatico postumo, la prevedibilità in coinvolgimento (come è accaduto, del resto, nella recente ed ennesima versione del classico supersentimentale “E’ nata una stella”) e la strizzatina d’occhio ai giurati dell’Academy in un potente richiamo nostalgico a quando il cinema era il cinema.

JUDY

MUSICALE/BIOGRAFICO – GRAN BRETAGNA 2019

Regia di Rupert Goold. Con: Renée Zellweger, Jessie Buckley, Finn Wittrock, Rufus Sewell, Michael Gambon

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