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Pubblicato il 29 Maggio 2023 | da Valerio Caprara

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Io, l’insurrezione ungherese e “Il sol dell’avvenire”

Nell’autunno del 1956 frequentavo la scuola media “Macedonio Melloni” di Portici. Nel corso di quei mesi fui molto turbato da una serie di notizie, fatti e contegni che non riuscii a comprendere del tutto e solo in età adulta ho potuto via via ricomporre ricavandone forti emozioni, un’inesausta curiosità e la profonda revisione di sentimenti e convincimenti. Quando, infatti, fu lanciata la raccolta di fondi a sostegno dei “martiri d’Ungheria” mi ritrovai terribilmente a disagio perché fui l’unico studente per decisione familiare a non versare una lira venendo ovviamente cassato dalla pubblica lista dei sottoscrittori. L’aspetto più strano, però, consisteva nel fatto che nella precedente campagna per la lotta contro la tubercolosi i miei erano stati oltremodo solleciti e generosi, tanto da permettermi un prolungato testa a testa per conquistare il primo posto di un analogo elenco: per vari giorni, infatti, chiedevo e ottenevo qualche spicciolo in più per sopravanzare il compagno di classe Guarra imparentato a un’influente dinastia politicamente schierata dalla parte opposta alla nostra. Su questo piano, per la verità, non era difficile rendersi conto anche allora che la forzata dissociazione dipendeva dalla figura di mio padre, esponente di spicco del Pci, già segretario di Togliatti e sindaco di Portici e deputato al parlamento per quattro legislature consecutive. Già, ma in che cosa consisteva precisamente la questione ungherese e per quali ragioni si caricava sulle spalle di un decenne alquanto inconsapevole il fardello di uno scontro ideologico così aspro non mi fu a lungo chiaro.

L’occasione per tornarci sopra e rimettere a fuoco le polemiche suscitate dall’eroica insurrezione ungherese è offerta proprio in questi giorni dal film di Nanni Moretti “Il sol dell’avvenire”, prima uscito nelle sale italiane e poi in concorso al festival di Cannes, dove se ne suggerisce -sia pure nell’ottica legittima della finzione- una lettura epidermica e fuorviante. Facendo nuovamente un passo indietro nei ricordi, aggiungo che la mia percezione di ciò che era avvenuto nelle strade e le piazze di Budapest dal 23 ottobre al 4 novembre si limitò giocoforza a dipendere dalla lettura degli opuscoli stampati e distribuiti a cura del partito che circolavano in casa: in essi la rivolta veniva descritta come anticomunista prim’ancora che antisovietica, corredata com’era dalle istantanee dei cadaveri di funzionari e poliziotti fedeli al regime scempiati “dalla teppaglia”, dei falò dei tomi del marxismo-leninismo, delle bandiere nazionali con un buco al posto dello stemma comunista sforbiciato e dei “criminali fatti uscire di galera per sovvertire l’ordine socialista”. Paradossalmente, però, quei veicoli di disinformazione e propaganda coglievano una parte importante della verità, proprio quella sottaciuta dal film che tende a interpretare la rivolta del popolo ungherese più che altro come un moto d’indipendenza patriottica e la sanguinosa repressione messa in atto dai carri armati sovietici come un tragico errore dello stalinismo. La vasta bibliografia ormai disponibile sull’argomento tramanda narrazioni e motivazioni del tutto diverse: l’insurrezione scoppiò come protesta spontanea di massa contro la miseria e la violenza connaturate al sistema e alla sua pavida sottomissione ai voleri del Cremlino. Una volta falliti i tentativi di soffocare sul nascere i moti che sulla spinta di programmi improvvisati, confusi e non di rado divergenti invocavano invano l’intervento salvifico delle democrazie occidentali, ci fu il primo attacco delle truppe sovietiche neutralizzato da un’accanita guerriglia e l’instaurazione di un governo di apertura riformista e pluralista guidato dal mite leader antistalinista Imre Nagy. Sta di fatto, però, che l’odio contro i comunisti e la famigerata polizia politica Ávh tracimava in numerosi episodi di violenze e linciaggi e Nagy e i suoi collaboratori facevano fatica a coordinare e disciplinare le azioni dei gruppi armati asserragliati nei punti strategici della città: a questo punto la decisione di sferrare la seconda massiccia invasione e affidare la restaurazione al traditore Kàdàr fu presa e portata a termine da Chruščëv, proprio da colui, cioè, che nel febbraio dello stesso anno aveva denunciato al XX congresso del Pcus il culto della personalità e i crimini di Stalin e adesso temeva che la minima tolleranza nei confronti dei “controrivoluzionari” avrebbe potuto inficiare il suo programma di continuità nella diversità sempre in linea con le esigenze del paese-guida.

Il protagonista di “Il sol dell’avvenire” straccia, dunque, con un gesto simbolico un po’ a vanvera il ritratto di Stalin perché fu la logica intrinseca del potere sovietico a scatenare il massacro e il successivo terrore; ma anche l’accorata fantasia dell’abiura della sezione Pci del Quarticciolo non regge perché sorvola sul fatto che le dissociazioni in realtà ci furono, furono anche estese e coinvolsero nomi di importanti dirigenti (da Di Vittorio a Giolitti) come d’illustri intellettuali (da Sapegno a Calvino e Silone) venendo, peraltro, subito tacitate dall’ortodossia dominante non solo al vertice ma anche nelle vene profonde del partito. Forse, per farlo risultare più credibile, bastava concedere al film una citazione del Psi di Nenni che compì davvero il passo vagheggiato dagli sconsolati militanti della parabola morettiana.

Resta da chiedersi perché quei tragici frangenti, rievocati dal regista-attore in ogni caso coraggiosamente, siano stati frequentati così poco dal cinema italiano ed europeo, tanto da fare venire di primo acchito in mente solo il film italiano di Indro Montanelli “I sogni muoiono all’alba” (1961) e quello ungherese di Màrta Mészàros “L’uomo di Budapest” (2004). In particolare è assurdo per non dire sospetto il fatto che nessuno sceneggiatore di spicco abbia messo mano a testi avvincenti come Budapest 1956 di Sebestyen (Rizzoli), Ungheria, 1956 di Dalos (Donzelli) e soprattutto il formidabile Abbiamo quaranta fucili compagno colonnello di Kopàcsi (e/o). Racconti e rivisitazioni in cui una miriade di scontri cruenti, esecuzioni sommarie, s.o.s. radiofonici, summit segreti, sequestri, deportazioni e vendette giungono al diapason della tensione epica più e meglio dei thriller storici di culto. Quanto a mio padre, molti anni dopo radiato dal Pci per l’adesione al gruppo eretico del “manifesto”, in occasione della prima, blanda presa di distanza del segretario Natta dalle posizioni sostenute nel ’56 ebbe a commentare amaramente che “di fatto s’accomunano in un informe lavacro le vittime e i carnefici”. Un piccolo risarcimento postumo di quell’obolo negato alle ragioni della verità.    

 

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