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Pubblicato il 14 Settembre 2021 | da Valerio Caprara

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IN RICORDO DI BELMONDO

“Mille vite, la mia” s’intitola la spavalda autobiografia uscita in Italia per Donzelli nel 2017. Dalla copertina Jean-Paul Belmondo sembra guardarci dritto negli occhi, la sigaretta in bocca e l’eterna aria provocatoria pronta a replicare alla sua maniera all’inevitabile domanda “ma che cos’altro hai combinato stavolta?”. L’immortale “Pierrot le fou”, però, l’acrobata della finzione reale e viceversa, il ragazzo del clan più strafottente, l’antieroe eponimo dei cinefili parigini, la tenera canaglia di mille zingarate e mille amori dentro e fuori dallo schermo, l’incallito cascatore ottantottenne inerpicatosi ieri per sempre -ovviamente senza l’aiuto della controfigura- nel firmamento delle star, dovrebbe infine riconoscere che non è vero niente, ci ha presi per l’ennesima volta in giro e quelle vite grazie al cinema sono a pieno diritto anche le nostre. Ottanta film e trenta pièces teatrali (tra cui i trionfi di “Kean” nell’87 e “Cyrano” due anni più tardi), la Palma d’oro del festival di Cannes e il Leone d’oro della Mostra di Venezia alla carriera rispettivamente nel 2011 e il 2016, nonché la Legione d’onore nel 2007 tramandano, certo, a futura memoria non solo cinematografica il nome di Bébel (soprannome ereditato da Pépel, il personaggio interpretato da Gabin in “Verso la vita” di Renoir), ma l’enciclopedia in questi casi non basta: stiamo girando attorno, infatti, a una di quelle figure a tuttotondo extra pellicola che il cinema rende monumentali a prescindere dalla bravura e piuttosto in ragione del glamour capace d’ingigantirne a dismisura il rilievo e la durevolezza. Il fenomeno miracoloso, comunque, è ancora un altro: al di là del sottile senso di mancanza che s’intrufola nei bilanci di un paio di generazioni giunte al crepuscolo, non spuntano le lacrime, non viene naturale rimpiangere o maledire, non scorrono sui tasti del pc i consueti epicedi grondanti gli elogi luttuosi di prammatica. La ragione è la più semplice che si possa immaginare: l’attore dal naso schiacciato, l’andatura dondolante e l’irrequietezza tesa sotto la risata facile, il fisico aitante, la sfrontatezza virile spesa in ogni salto, corsa o amplesso ha vissuto la vita amandola senza riserve, calamitando dappertutto allegria e simpatia, respingendo sistematicamente la tragedia (“quando giravo i film, le scene più ostiche erano sempre e solo quelle in cui mi si chiedeva di piangere”) e approcciando ogni momento fuori e dentro il set protetto da una sorta di bolla radiosa ed euforizzante.

Nato il 9 aprile 1933 a Neuilly-sur-Seine, Bébel ha avuto la fortuna di contare su un padre scultore che lo ha sempre lasciato libero “di provare a essere felice” e una madre pittrice, Madeleine Rainaud-Richard, provetta amazzone ed educatrice sui generis (“mi ripeteva che tutto è questione di volontà ed è indispensabile credere nei propri desideri infischiandosene di coloro che vogliono scoraggiarti, avvilirti, sottrarti la fiducia”): indimenticabili risultano, infatti, le pagine dell’autobiografia in cui emergono dalle nebbie della memoria i profili della foresta di Rambouillet dove la mamma rimasta sola con due figli si era insediata per sfuggire alle retate e ai bombardamenti degli occupanti tedeschi.

Ed è curioso come l’Italia e gli italiani abbiano costituito, in un attore diventato giustamente simbolo di “francesità” nell’immaginario collettivo, un chiodo fisso, una seconda appartenenza, l’identità che i compagni di scuola prendevano di mira apostrofandolo col noto nomignolo dispregiativo di “rital” o “macaroni” e ricevendone in cambio calci e pugni al termine d’interminabili risse che, insieme alla boxe praticata di lì a poco, gli avrebbero cambiato (per sua paradossale fortuna) i connotati. Allievo indisciplinato dell’Accademia d’arte drammatica della capitale, s’imbatte per strada nel 1958 nel giovanissimo leader dei “giovani turchi” nemici del cosiddetto cinema di papà Jean-Luc Godard ed accetta di girare per cinquantamila franchi il cortometraggio “Charlotte et son Jules”, una chicca sottilmente erotica amatissima dagli adepti dell’oracolare rivista “Cahiers ducinéma”. La strada è dunque segnata e dopo le apparizioni in altre pellicole intrise dell’atmosfera disillusa e ribelle dell’epoca come “Peccatori in blue-jeans” di Carné, torna dal pigmalione diventando il protagonista del suo lungometraggio d’esordio “À bout de souffle” (“Fino all’ultimo respiro”, 1960), pietra miliare della nascita del cinema moderno. Tutti gli appassionati sanno, infatti, che se questo cult funziona da spartiacque narrativo, stilistico e ideologico è proprio perché il personaggio si fonde da subito con un progetto eversivo a lungo termine: “Il giorno prima delle riprese, chiesi al Jean-Luc se avesse un’idea di quello che voleva fare della, se così si può chiamare, sceneggiatura scritta su un unico foglio dal collega e complice Truffaut e lui mi diede l’unica risposta che poteva riempirmi d’entusiasmo: No”. L’avvisaglia è inequivocabile e grazie al successivo noir irridente e romantico “Pierrot le Fou” (“Il bandito delle undici”, 1965), il finto cattivo charmeur si trasforma definitivamente in un’icona della Nouvelle Vague.

Come succede, del resto, solo ai professionisti titolari di filmografie parimenti sconfinate e parimenti firmate dal gotha dei maestri della cinepresa (Sautet, il Melville di “Léon Morin prete”, Deray, il Malle di “Ladro di Parigi”, l’Oury di “L’asdesas”, il Truffaut dello stupendo “La mia droga si chiama Julie” al fianco di una letale Catherine Deneuve, Chabrol, il Resnais del rocambolesco “Stavisky il grande truffatore”, il Giovanni di “Il clan dei marsigliesi” per limitarsi ai connazionali; ma anche i maestri della seconda patria tricolore come Lattuada, il De Sica di “La ciociara” e Bolognini), l’attore che non accetta né concepisce limiti diventa il mattatore della cronaca rosa: in primis, com’è noto, grazie agli amori veri o falsi -che costituirono per anni la ghiotta preda dei media- vissuti con le donne più belle e sexy del mondo da Ursula Andress a Laura Antonelli (durato dal 1972 al 1980 e di sicuro quello più carnale e squassante), da Jean Seberg ad Anna Karina e, forse, Gina Lollobrigida e Claudia Cardinale. Un’attitudine maniacale alla conquista machista, oggi probabilmente esposta al tiro incrociato delle vestali del #MeToo, che l’ha accoppiato sul set e, appunto, nel gossip con il presunto acerrimo antagonista Alain Delon. Un luogo comune smentito con puntiglio in prima persona: “Hanno sempre cercato di metterci in competizione, ma in realtà ci siamo voluti un gran bene… Siamo spesso diventati sullo schermo il bel tenebroso e il tenero mascalzone, ma la spontanea vocazione veniva dall’infanzia, povera e infelice la sua e accudita e allegra la mia”. Per gli increduli, in verità, basta guardare e riguardare –non ci stanca mai- quello che sanno fare ed esprimere in forma smagliante in “Borsalino”, uno dei vertici di tutti i tempi del cinema d’avventura raffinato eppure popolarissimo. Sposato dal 1953 al 1966 con la ballerina Elodie Constantin, ne ha avuto tre figli: Patricia, morta nel 1994 in un terribile incendio, Florence e Paul Alexandre che, seguendo le sue orme di fanatico cultore di tutti gli sport e in particolare dell’automobilismo, è stato in passato un discreto pilota agonistico. Nel dicembre 2002 ha sposato in seconde nozze NattyTardivel con cui conviveva da tredici anni e da cui ha avuto la quarta figlia Stella prima di divorziare nuovamente sei anni dopo ed essere colpito da un’ischemia cerebrale che ne ha di fatto chiuso la carriera. Certa critica non più di papà, ma, ahinoi, di qualche nipotino talebano gli ha talvolta rimproverato l’”eccessiva popolarità”, il “cedimento al commerciale”, l’”istrionismo muscolare”… roba da fare accapponare la pelle. Perdoniamo, peraltro, quei miscredenti recuperando come omaggio di sicuro impatto un altro dei suoi cult dal titolo eloquente sia in versione originale, “Itinéraire d’un enfant gaté”, “Itinerario di un bambino viziato”, sia in quella nostrana: “Una vita non basta”.

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