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Pubblicato il 29 Gennaio 2016 | da Valerio Caprara

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In morte di Jacques Rivette

Jacques Rivette, da qualche tempo affetto da Alzheimer e morto ottantasettenne ieri a Parigi, è stato tra i meno conosciuti ma più autorevoli e rigorosi esponenti della Nouvelle Vague, insieme al neorealismo il movimento più rilevante della storia del cinema. Al di là della definizione originata da un’inchiesta di “L’Express” del 1957, infatti, il gruppo di febbrili adepti della Cinémathèque di Langlois riuscì a imporre un rinnovamento generazionale e una coerenza estetica che hanno influito sulla storia del cinema francese e mondiale non solo negli aspetti tematici e stilistici, ma anche in quelli economici e produttivi. Nato a Rouen nel 1928, Rivette, si trasferisce a Parigi per studiare alla Sorbonne ma sceglie presto la cinefilia scrivendo sulla “Gazette du cinéma” e sui mitici “Cahiers du cinéma” (di cui era destinato a diventare direttore nel ‘63) e diventando amico di leader come Astruc, Godard e Rohmer. L’esordio dietro la cinepresa avviene grazie a un apprezzato corto del ‘56 (“Le coup du berger”), ma il suo primo film -“Paris nous appartient”, prodotto dai colleghi Truffaut e Chabrol- subisce notevoli traversie e quando esce nel ’60 va incontro a un fiasco. Si tratta di un must da cineteca, una sorta di giallo esistenzialistico votato più alla creazione di un’atmosfera che allo scioglimento della suspense in grado, peraltro, di tramandare alla perfezione i comuni umori di contestazione del cinema cosiddetto “di papà”.

Padrone di una tecnica raffinata, Rivette inaugura, così, una filmografia continua ma contenuta che mette in primo piano la recitazione di taglio teatrale degli attori e l’eleganza formale delle immagini. Nel ’66 “La religiosa”, trasposizione della sua rilettura per il palcoscenico del settecentesco romanzo di Diderot, suscita scandalo e provoca censure ottenendo, però, un raro riscontro di popolarità; mentre “L’amour fou” (’67), esperimento di cinema-verità che alla stregua dei moderni reality pedina la vita di una coppia e “Out 1: spectre” (’70), dodici ore poi ridotte a quattro di spunti balzacchiani intrecciati agli itinerari di una compagnia teatrale, lo relegano nel novero dei maestri spesso e volentieri ignorati dal pubblico. Ci sembrano preferibili i titoli successivi –come “Merry-Go-Round”, “Céline et Julie vont en bateau”, “L’amore in pezzi”, “Una recita a quattro”, “Alto basso fragile” o “Chi lo sa?”, carosello pirandelliano esaltato da un trasformistico Castellitto- in cui l’esplorazione dei poteri del cinema si apre a bizzarri, imprevedibili, incantati pastiche tra sogno e realtà. Le diverse anime di Rivette, del resto, sono evidenziate dall’antitesi tra “La bella scontrosa” (’91), strepitoso duello sensuale tra la Béart e Piccoli o il gotico-erotico “Storia di Marie e Julien” e il monocorde e fluviale tentativo di rifondare nelle due parti di “Giovanna D’Arco” (’94) il modello rosselliniano. La sua ultima sortita, datata 2009, è lo stravagante puzzle circense “Questione di punti di vista” affidato alla Birkin e il prediletto Castellitto.

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