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Pubblicato il 15 Ottobre 2016 | da Valerio Caprara

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In morte di Andrzej Wajda

Quando al Festival di Cannes del 1981 fu proiettato “L’uomo di ferro” (“Czlowiek z zelaza”), destinato a vincere la Palma d’Oro e successivamente a essere nominato all’Oscar per il miglior film straniero, l’emozione fu grande, ma l’apprezzamento non altrettanto unanime. Inutile nascondere, infatti, che lo slancio cosí fortemente anticomunista del soggetto poneva dei problemi all’accorto unanimismo della gestione Jacob e alla propensione assolutoria di molti addetti ai lavori nei confronti delle cosiddette democrazie popolari. In effetti Andrzej Wajda, scomparso ieri a Varsavia all’età di novant’anni non solo era riconosciuto come maestro del cinema polacco, ma si era già mobilitato in senso artistico contro il regime con “L’uomo di marmo ” che sulla Croisette s’era limitato a ottenere il Premio della critica internazionale: nel suo capolavoro, però, il regista dagli anni dello stalinismo in cui era ambientato il primo film si trasferiva nelle lacrime e sangue del presente, ricostruendo con forte spirito d’adesione (vi compare anche Lech Walesa nel ruolo di se stesso) e un’incalzante struttura da thriller la nascita di Solidarnosc e l’inevitabile deriva del potere. Materia scomoda, insomma, per il milieu intellettuale egemone anche al cinema che ancora sperava nell’autorigenerazione del cosiddetto socialismo reale.

Il maestro, che ha ricevuto un Oscar alla carriera nel 2000, nasce nel 1926 a Suwalki e combatte giovanissimo contro i tedeschi anche per onorare il padre, uno dei famosi ufficiali della cavalleria nazionale caduti all’alba dell’invasione hitleriana. Allievo della Scuola di cinematografia di Lodz, si fa le ossa collaborando col prestigioso regista Aleksander Ford che gli offre ben presto la chance di esordire con “Generazione” (1955), un risentito identikit generazionale gremito d’insofferenza nei riguardi del mondo degli adulti e del loro tronfio patriottismo. Diventato inscindibile dal vigoroso attore Zbigniew Cybulski, protagonista del capolavoro “Cenere e diamanti” (1958) che coniuga magistralmente una visionarietà fantasmatica e barocca con la stringatezza di un mystery hollywoodiano, è duramente colpito dalla morte di quest’ultimo in un incidente ferroviario, tanto da dedicare alla sua fine uno dei suoi titoli più celebrati, il complesso intreccio tra realtà e fiction intitolato “Tutto in vendita” (1969). Divenuto un beniamino dei festival più autorevoli, dirige negli anni Settanta film importanti e intensi, non di rado impregnati di una letterarietà non puramente illustrativa, come “Paesaggio dopo la battaglia”, “Il bosco di betulle”, “Le nozze”, “La linea d’ombra” o “La classe morta”, ricoprendo cariche numerose e prestigiose nelle istituzioni cinematografiche polacche pur senza piegarsi a farsi docile portavoce degli ipotetici interessi nazionali. La gestione di uno stile personale, attirato sia dal realismo poetico sia dal gusto dissacrante della distorsione grottesca, non lo trasforma, certo, in un dominatore del box-office, tanto che in patria sembra a tratti raggiungere il massimo della popolarità prevalentemente nelle plurime esperienze di regista teatrale, ma la vittoria al festival di Mosca 1975 ex aequo con Scola e Kurosawa di “La terra della grande promessa” e il succitato scoop di “L’uomo di marmo” lo riportano al centro del panorama cinematografico internazionale. Sull ‘abbrivio dello shock procurato con “L’uomo di ferro”, l’anziano Wajda gira successivamente titoli che non hanno nulla di senile come “Un amore in Germania” e “Dottor Korczak”, “Walesa” (con la Omaggio perfetta nella parte della Fallaci) e soprattutto i veementi “Danton” e “Katyn” che ribadiscono la sua fede in un asciutto pessimismo che ripudia tutti i falsi balsami redentoristici imposti alle masse nel vecchio e nuovo secolo. Ed è dunque triste che all’imminente festival di Roma passerà, come se fosse stato preventivato un tempestivo omaggio, il suo ultimo film “Afterimage”.

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