Recensioni

Pubblicato il 29 Ottobre 2022 | da Valerio Caprara

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Il colibrì

Il colibrì Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario: Le disgraziate vicende di un borghese di mezza età rievocate tramite gli incontri/scontri con le persone importanti della sua vita

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“Hai letto il libro?”. “No e mi dispiace”. “Hai visto il film?”. “Sì e mi dispiace”. “Il colibrì” di Francesca Archibugi, perché è solo questo che qui interessa, sembra proprio l’emblema del cinema italiano più decorativo, un compendio snervante di pretensioni artistiche (“arty” come si dice in inglese) e iperboli melodrammatiche inanellate con un parossismo che farebbe fatica ad accreditarsi persino nei saggi di Umberto Eco sul romanzo rosa di Liala e Carolina Invernizio. Ovviamente non si tratta d’infastidirsi per l’accumulo invero ingente di coincidenze fatali, sfighe e disgrazie, bensì per la saturazione pretestuosa con cui il film si compiace d’incastrare le peripezie del borghese di mezza età Marco, rievocate tramite una vorticosa cadenza che va dai primi anni Settanta fino al futuro prossimo, nella sfilata dei personaggi importanti della sua vita senza darsi pena di caratterizzarne qualcuno per ciò che è e non solo per quello che fa preferibilmente piangendo, deprecando, urlando. Né giova all’insieme l’avanti e indré temporale che nell’arco di 126 minuti non contempla le sfumature facendo sì che le linee narrative risultino confuse, estemporanee, appena sbozzate o come lasciate da parte per poi non riprenderle. Dispiace particolarmente che il protagonista Favino, attore di straordinario livello ultimamente un po’ penalizzato dall’overdose d’ingaggi, sia il primo a patire la spoliazione psicologica della sarabanda (quantomeno ambientata per il piacere degli occhi tra ville in Versilia, lussuose case fiorentine e romane o la Parigi più trendy): ci sta che venga soprannominato il colibrì, perché come il minuscolo uccello tropicale riesce a restare fermo nell’aria mentre intorno il contesto cambia o collassa, però alla fine non si riesce a amarlo, odiarlo o addirittura identificarlo al di là del fatto che essendo sempre punito dalla sorte per le sua non aurea mediocritas, puntualmente risulta assolto. Debolezze strutturali che purtroppo si possono estendere all’intero cast composto da attori, certo, professionali che cercano però di cavarsela dignitosamente alle prese con una serie di eventi che rasentano il ridicolo involontario, dal grande amore mai consumato (ma lei gli dice: “sei il paradigma di tutte le storie che ho avuto”) al disastro aereo che permette il connubio di due scampati, dall’inopinata frequentazione del protagonista dei club esclusivi di poker (con la nipotina orfana messa a dormire nella stanza a fianco) alla performance volto-voce di Nanni Moretti che sembra truccato da Nanni Moretti nel ruolo dello psicoanalista sconvolto (sic) dalle storie ascoltate dai suoi pazienti e pertanto esiliatosi in una cooperativa di neri extracomunitari.

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