Recensioni

Pubblicato il 23 Luglio 2021 | da Valerio Caprara

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Giovanni Vento e il suo film dimenticato

Vacilla a sorpresa il primato di “Tammurriata nera”, James Senese e le consolidate icone dei cosiddetti figli della Madonna o della guerra. Il diffuso fenomeno dei criaturi niri niri nati per lo più tra il ’45 e il ’46 dai connubi tra le donne locali e i militari di colore della Quinta Armata nella Napoli miserabile e umiliata dopo la caduta del fascismo e l’avvento degli Alleati sembrava alquanto ignorato dai numerosi film ispirati alle vicende di quel drammatico periodo e quindi costituisce un autentico scoop la felice conclusione della missione filologica intrapresa dal docente di cinema presso l’Università degli studi Roma Tre Leonardo De Franceschi. Grazie alla sua profonda competenza e incrollabile tenacia, infatti, è riemerso in piena luce il film fantasma (non trovò un distributore e non riuscì mai a uscire nelle sale) “Il nero”, l’unico film di finzione di Giovanni Vento (1927-1979), sceneggiato insieme a Lucio Battistrada e Franco Brocani e girato tra l’inverno del ’65 e la primavera del ’66, basato sul “coming of age” di ragazzi locali e stranieri, bianchi e neri, impreziosito dalla colonna sonora in cui, accanto a popolari canzoni d’epoca, dilaga il jazz di Pietro Umiliani con i meravigliosi riff di Gato Barbieri e ambientato in una Napoli fuori cliché, colta a metà del guado verso una ritardata modernizzazione e agitata dai presentimenti dell’imminente contestazione sessantottina. Si tratta di un’acquisizione che mette in evidenza uno stralcio sincretico di storia del cinema ben più appassionante di qualsiasi periplo attorno agli ombelichi della critica e risarcisce sette anni di estenuanti ricerche, ostacoli tecnici e scoperte insperate: non è, dunque, un caso che l’autore, titolare della cattedra di Studi Postcoloniali di Cinema e Media, l’abbia suggellata sia promuovendo il restauro digitale della pellicola presso il Museo del Cinema di Torino, sia ricostruendo ogni fase del percorso in un’articolata ed esaustiva monografia (Il nero di Giovanni Vento. Un film e un regista verso l’Italia plurale, Dublino, Artdigiland, 2021, Euro 35).

Coloro che potranno guardare il film dopo l’unica presentazione avvenuta l’anno scorso al Torino Film Festival (esistono alcune possibilità in tal senso), godranno innanzitutto di un cospicuo inventario urbanistico della Napoli anni Sessanta (piazza Plebiscito, il Maschio Angioino, l’Italsider di Bagnoli, la Galleria Umberto I, lo stadio Collana al Vomero, la rosticceria Pizzicato a piazza Municipio, via Chiaia, via Toledo, viale dei Giochi del Mediterraneo, il lungomare Caracciolo, il ristorante Vicienzo a’mmare di Pozzuoli, l’antica e oggi perduta Sala Alessandro Scarlatti del Conservatorio di Musica San Pietro a Majella ecc. oltre agli sconfinamenti nel complesso archeologico di Minturno e il cimitero di guerra del Commonwealth di Cassino); ma anche di un racconto divagante e irrisolto, modellato com’è sulle impasse esistenziali dei giovani interpreti -ma nel cast ci sono anche Regina Bianchi e Andrea Checchi- e complessivamente tanto spigliato in chiave stilistica da metterlo più in sintonia col neorealismo minore della linea Camerini-Blasetti e Castellani-Comencini anziché, per esempio, con i sofisticati esordi antonioniani o le antagonistiche epopee pasoliniane.

Vento, in pieno trasporto artistico, abbozzò addirittura una sorta di guida alla lettura destinata alle recensioni che poi ovviamente non ci furono: “Questa cronaca autunnale, questo moderno commiato dalla gioventù, si svolge in una Napoli che potrebbe essere anche Milano o New York. “Il nero”, infatti, non è un film sul nero, ma un film di neri, il primo film italiano di neri. Questi italiani neri (i figli della Madonna, come vengono chiamati a Napoli) sono i primi neri della storia italiana… non hanno nessuna tradizione, nessuna razza, nessun passato, nessuna storia e nessun folclore. Appartengono ai giovani Alessandra e Silvano, figli della stessa madre, che si amano: un rapporto forse incestuoso, ma non pornografico, un amore che stimola la consapevolezza, non i sensi. La storia di Marco e Orchidea da un lato e quella di Silvano e Alessandra (e di Joy, la studentessa nigeriana che è amica di Silvano) dall’altra rimangano separate anche se talvolta si incrociano, come durante una jam session”. Un pezzo, per la verità, davvero singolare, preoccupato di negare penchant erotici che avrebbero potuto mettere in cattiva luce il suo trasporto (e che invece si percepiscono chiaramente) e abbastanza coraggioso nell’affrontare per via testuale quello che era fino ad allora oggetto solo di ammiccamenti ridanciani.

Per farsi un’idea di chi sia davvero stato e come abbia vissuto una carriera in chiaroscuro Giovanni Vento (1927-1979), viene ovviamente in aiuto il dettagliato corredo biografico messo a punto nel libro: romano, militante di sinistra, collaboratore in veste di critico cinematografico di “l’Unità” e “Filmcritica”, documentarista rigoroso e attento alle situazioni ambientali e umane dolorose, emarginate o ignorate dalla produzione corrente ed ex assistente di Carlo Lizzani, sembrò per breve tempo agli occhi della cinefilia d’assalto un profilo da sostenere nella lotta appena intrapresa contro le incrostazioni passatiste della critica ufficiale. Tanto è vero che Gideon Bachman selezionò per il festival di Berlino 1967 un terzetto di rappresentanti del mini rinascimento in atto a Cinecittà comprendente, appunto, “Il nero”, “Prima della rivoluzione” di Bertolucci e “I pugni in tasca di Bellocchio”. Da quel momento in poi, però, nonostante i buoni uffici di Lizzani e dell’Italnoleggio, l’ente specializzato nella distribuzione di film d’autore o impegno civile considerati difficili o elitari, il film entrava in un tunnel da cui non sarebbe più uscito. Nelle pagine che si dilungano su quest’aspetto nebuloso e controverso De Franceschi s’addentra anche in una corrucciata disamina della mentalità razzista e l’eredità colonialista addebitabili al passato remoto e recente del paese che aprirebbe, però, un altro tipo di discussione (o confutazione) che non interessa ai lettori in questa sede. Dove invece risalta il ruolo che lo sfortunato autore assegna a Napoli, l’unica città secondo lui in grado di farci interrogare su un rapporto con la diversità che i personaggi del film ignorano tranquillamente e il cui atavico cosmopolitismo avrebbe permesso un percorso d’integrazione “distratto”, ovvero rilassato e naturale, ai suoi neri… per intero.               

 

 

 

 

 

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