Recensioni

Pubblicato il 27 Ottobre 2017 | da Valerio Caprara

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Così parlò De Crescenzo

Come può un critico che non ha amato a suo tempo –come invece hanno fatto legioni di spettatori- i film diretti e interpretati dal Luciano De Crescenzo ritrovarsi oggi a promuovere senza riserve il documentario prodotto e distribuito da Bunker Hill che ne tramanda le poliedriche imprese? Un’ipocrita benevolenza di categoria, il pentimento del cinefilo stagionato, l’imbarazzo dovuto a un fuggevole quanto piacevole rapporto personale? Lettori e spettatori sono ovviamente liberi di metterla su questo piano, ma non dovrebbero trascurare due circostanze che potrebbero fungere da prove a discarico… La prima è quella che l’opera prima del distributore indipendente Antonio Napoli “Così parlò De Crescenzo”, in uscita nazionale giovedì, ricostruisce il tuttotondo di una personalità traboccante e complessa nel cui curriculum l’identità di scrittore, divulgatore, giornalista, programmista, presentatore e personaggio televisivo supera quella pure cospicua di sceneggiatore, regista e attore: come agevolmente ribadisce il dato impressionante dei 43 libri pubblicati, tradotti in 19 lingue e diffusi in 25 paesi per un totale di oltre 20 milioni di copie vendute.

Solo un giapponese asserragliato nella giungla mediatica, infatti, potrebbe sorvolare su un successo così duraturo, così radicato nel gradimento del pubblico semplice (che non vuole dire affatto stupido), così importante nel flusso di riflessioni e discussioni sul vasto arco della napoletanità artistica che non si è mai inaridito e, anzi, proprio nei nostri tempi si scopre riattizzato da punte d’inaudita virulenza polemica. Naturalmente ricchi di testimonianze, i settantasei minuti impaginati con partecipazione emotiva e nello stesso tempo con la necessaria obiettività chiamano, infatti, in causa i “compagni di strada” dell’ex ingegnere della IBM che non si limitano a tesserne lodi scontate ma, in un certo senso, allestiscono un film-nel-film generato da una storica affinità comportamentale, mentale e in un certo senso addirittura fisica. Renzo Arbore svetta, obiettivamente, come l’alter ego del protagonista che ne ha intuito per primo le doti di colto intrattenitore, inesauribile farceur e raccontatore di storie di una napoletanità contrassegnata dal marchio di un’ironia tanto lieve ed epidermica, quanto spiritosa, distaccata, pungente, elegante e dunque oggi purtroppo terribilmente rara.

Ma ugualmente importanti risuonano le dichiarazioni di complici esistenziali come Isabella Rossellini, che con benemerita disinvoltura conferma la fama non usurpata del buon Luciano come impenitente dongiovanni; il professor De Masi, sociologo eminente votato a un amore per il cinema alieno dai diktat dei guru dello specialismo; gli amici di sempre Renato Ricci e Federico Nucci prodighi di episodi spassosi della giovinezza, vocazione e prime esperienze del più brillante dei guaglioni borghesi del dopoguerra napoletano; gli attori Benedetto Casillo, Marina Confalone e Marisa Laurito che non solo illustrano le qualità umane del loro demiurgo, ma quasi tornano a recitare le scene e le battute –conosciute e ripetute a memoria anche dai giovani contemporanei- che li hanno consegnati al pantheon dei migliori talenti comici nazionali. Il “qui e ora” registico è affidato alle fluide riprese effettuate all’interno di un appartamento suggestivo ed eloquente come pochi altri, come potrebbero testimoniare gli autori del volume voluto dall’ANM … e ci vediamo sotto alla funicolare in cui l’ingegnere svela i segreti della cosiddetta corsa dei carruoccioli da lui organizzata all’alba degli anni Cinquanta sulla pista naturale che da via Morghen precipita sino alla Santarella. Ma poi tra il presente che esplora pudicamente, con la premurosa collaborazione della coautrice e intervistatrice Serena Corvaglia, la quotidianità di un uomo assai anziano eppure costantemente motivato dall’infinita gioia di vivere che resta uno dei suoi assi nella manica e il passato rievocato da spezzoni cinematografici, televisivi e cronistici al cui cospetto è quasi sempre impossibile reprimere l’ammirazione o la risata, l’identikit non risulta banalmente agiografico, ma piuttosto intonato alla semplicità e all’arguzia di un autentico maestro per caso.

Non abbiamo dimenticato, in ogni caso, la seconda circostanza che riporta alla dedica autografata al suddetto critico scettico sulle sue qualità cinematografiche. Il libro era Socrate (’93) e le parole dell’autore recitavano: <nella speranza che Socrate lo convinca a rivedersi. Così parlò Bellavista>. Magari è il caso di aggiungere anche la preveggenza alle doti dell’impareggiabile ingegnere.

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