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Pubblicato il 29 Maggio 2020 | da Valerio Caprara

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Clint Eastwood compie novant’anni

 
Clint Eastwood compie il 31 maggio novant’anni e c’è da vergognarsi dovendo riaprire, sia pure con acquisito equilibrio e adeguata competenza, il vecchio capitolo dello sdoganamento. Al proposito c’è da aggiungere che, certo, deve essere infernale la vita del critico e dello spettatore assoggettati ai diktat del politicamente corretto: ignari o dimentichi della ballata di Gaber (“… è’ evidente che la gente è poco seria/quando parla di sinistra o destra…”), i poverini si ritrovano ormai ogni giorno alle prese con i fatidici dubbi e gli annessi, irrisolvibili rovelli. Woody Allen sì, perché sarebbe indecoroso accodarsi alle persecuzioni e alle epurazioni pretese dai produttori ed editori più bigotti; Checco Zalone no, la sua favola africana irride tutti i razzismi, però non possiamo sostenerlo perché ha dichiarato che non è contro Salvini; Ladj Ly sì, “Les Misérables” è bellissimo e dunque chi se ne impipa se il baldo giovanotto coltiva simpatie jihadiste e ha la fedina penale non proprio immacolata; Polanski invece no, anche il suo ultimo film è bello però il vecchio maestro è marchiato per sempre come stupratore dalle vestali del #MeToo; Michael Moore ni, è sempre un ossesso contro il modello americano, ma il suo recente docudrama piace troppo all’estrema destra antiambientalista…
Su questo campo minato, del resto, Clint marcia da anni e non è certo cambiato adesso che assomiglia a una delle sculture dei volti dei presidenti Usa scolpite nella roccia del Monte Rushmore: non solo e non tanto nei lineamenti istoriati di rughe eppure dotati di un’espressione fiera e uno sguardo vivido, quanto nello stile delle regie che sono diventate sempre più essenziali, sobrie, inscalfibili, appunto granitiche. Ne è passata di pellicola, tra l’altro, da quando sul prosieguo di carriera seguita all’era dell’Uomo senza nome dei western di Leone gravava come un macigno l’irridente battuta del suo mentore (“mi piace perché ha solo due espressioni, una col cappello e l’altra senza”) che, però, a rifletterci bene voleva dire all’incirca “solo io, col mio talento, sono riuscito a trasformarlo in un’icona”. Il patrimonio che fino a oggi ha accumulato a vantaggio non solo del cinema Usa (testimoniato da quattro Oscar vinti come registi, uno come produttore e altri sfiorati), bensì di quello mondiale –nel 2000 la Mostra di Venezia lo ha premiato con un Leone alla carriera- esibisce, in effetti, cifre imbattibili: 71 film interpretati e 41 regie caratterizzati da un’incredibile varietà di generi, temi e toni –non a caso è anche un compositore di grande valore-, ma nello stesso tempo saldati dalla vocazione primaria dello storyteller, il raccontatore di storie che respinge l’intrusione di un senso e un messaggio premeditati o programmatici ritratto in tempi non sospetti da uno studioso italiano appartato e geniale come Giuseppe Turroni: “Eastwood permette al suo cuore di vetro di battere in sintonia con una forma di cinema antico e ancora da venire […] le sue sono operazioni concettuali che non contemplano il citazionismo e il manierismo […] come artista ha per fortuna in serbo, in una parte segreta, un lato molto più fervido, creativo, vitale […] dato dai rapporti tra i colori, i nessi, i flussi, le vibrazioni cromatiche e ritmiche”. E’ stato già scritto e detto, ma sembra che ci sia sempre bisogno di un riepilogo che tracci lo spartiacque tra le posizioni convenzionali e quelle anticonformiste: se il registro interpretativo di Clint si è ispirato sin dall’inizio al classicismo dei Cooper, Fonda, Stewart, Scott o il più moderno McQueen nonché posto agli antipodi delle incarnazioni urlate, nevrotiche, sopra le righe affermatesi grazie al successo del Metodo dell’Actor’s Studio (anch’esse, peraltro, tramandate da dominatori dell’inquadratura come Nicholson, De Niro o Pacino), la sua esperienza dietro la macchina da presa ha via via imparato a realizzare un’integrazione il più completa possibile tra lo spunto narrativo e la trascrizione visiva e sonora, la scelta del soggetto e della sceneggiatura e il momento delle riprese e del montaggio, le regole della forma e il linguaggio e la capacità pratica di raccontare per spazi e tempi, immagini e suoni.
Tornando alla questione dello sdoganamento, un memoir di Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri pubblicato nel numero in edicola di “Film tv” ricostruisce punto per punto e titolo per titolo l’appassionante cronaca delle loro campagne pro-Eastwood condotte nel passaggio degli anni Settanta agli Ottanta dove meno le si poteva aspettare e cioè sulle pagine del quotidiano comunista “il manifesto”. E’ giusto, però, ricordare che la loro adesione, preceduta dagli exploit delle menti migliori della cinefilia parigina, non restò isolata anche in Italia perché un pugno di critici e saggisti altrettanto eretici sparsi tra le rubriche di testate importanti e popolari sostennero la medesima battaglia. Oltre alle lettere d’insulti di Nanni Moretti e le patenti di fascisti e machisti generosamente distribuite da colleghi e accademici inorriditi dalla serie dell’ispettore Callaghan – erroneamente scambiata per propaggine del filone dei giustizieri della notte – il gruppetto di disubbidienti faticò non poco a fare riconoscere la statura dell’ex sindaco di Carmel e la sua precipua identità di appassionato revisionista della storia patria. Oggi non è più il caso d’inseguire le sue opzioni politiche spicciole di repubblicano ostile ai liberal, ma implacabile nel denunciare malefatte, zone d’ombra e ingiustizie tollerate dal fronte conservatore in virtù di una una forma mentis influenzata dalle filosofie anarco-individualiste cosiddette libertarian, bensì di rendere omaggio all’autore di capolavori come “Un mondo perfetto”, “Gli spietati”, “Gran Torino”, “Mystic River” o “Million Dollar Baby” che non ha mai smesso di volere e potere restare fedele a se stesso alla maniera di uno dei suoi antieroi giammai riconciliati. 
     
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