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Pubblicato il 22 Aprile 2022 | da Valerio Caprara

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Cinema italiano ai tempi di “La Ciociara”

Il 1960 tramanda una grande annata per il cinema italiano: escono infatti “La ciociara” (De Sica), “La dolce vita” (Fellini), “La lunga notte del ‘43” (Vancini), “Rocco e i suoi fratelli” (Visconti) e “Tutti a casa” (Comencini). Storici anche gli esiti: al festival di Cannes il capolavoro di Fellini che aveva suscitato in patria scandalo e proteste vince la Palma d’oro, mentre il Premio speciale della Giuria va a “L’avventura” di Antonioni benché sia stato fischiato dal pubblico e alla Mostra di Venezia “Rocco e i suoi fratelli”, destinato a una lunga persecuzione da parte della magistratura, si aggiudica il Premio speciale. Particolare non trascurabile quasi tutte le pellicole scalano anche i primi posti delle classifiche d’incasso. Inoltre l’anno seguente l’eco internazionale ancora si accresce: l’Orso d’oro della Berlinale va a “La notte” di Antonioni, ma soprattutto la Loren vince l’Oscar e il premio per la miglior attrice a Cannes sempre per “La ciociara”. A questo proposito va, però, ribadito che, non potendosi delimitare qualsiasi ricerca con la secca scansione cronologica, anche quell’anno cruciale dirama robuste radici sia nel passato recente, sia nel futuro prossimo. Per censire con aggiornata e specifica consapevolezza il cinema degli anni Cinquanta è bastato, del resto, accettare l’idea di una progressiva metabolizzazione, disseminazione, ibridazione del neorealismo anziché il dogma della sua morte improvvisa, se non del suo “assassinio” per mano degli apparati politici e industriali, sostenuto dagli storici del cinema legati a schemi sorpassati: grazie, per esempio, agli esaustivi libri di Gian Piero Brunetta e di Lino Micciché (quest’ultimi peraltro condizionati da un’impostazione molto meno aperta e più ideologizzata) e alla congerie di monografie, saggi, retrospettive, restauri, antologie, enciclopedie e cataloghi scritti o curati, tra i tanti, da Di Giammatteo, Caldiron, Farassino, Aprà, Tassone, Canova, Della Casa, Zagarrio, oggi è un fenomeno acquisito il fatto che gli elementi sociali e i procedimenti creativi del neorealismo si siano distribuiti a tutti i livelli della produzione nazionale facendo sì che essa conquisti larghe porzioni di pubblico e opponga una forte resistenza all’esorbitante offerta hollywoodiana.

Dunque il 1960 non costituisce un evento pressoché miracoloso, tanto è vero che appena due anni prima era uscito “I soliti ignoti” di Monicelli, capostipite della commedia all’italiana, mentre l’anno successivo la giuria della Mostra veneziana aveva conferito il Leone d’Oro ex-aequo a “Il generale Della Rovere” di Rossellini e “La grande guerra” ancora di Monicelli. A pensarci bene, per dare ulteriore consistenza a tale convinzione, “La dolce vita”e “Rocco e i suoi fratelli” esprimono –sia pure attraverso dissimili impianti drammaturgici- il pathos di una laboriosa transizione tra gli assetti societari con la conseguente percezione delle future problematiche provocate dai rimodellamenti in progress dei canoni etici, esistenziali e psicologici. In particolare, il vertice che spetta secondo noi al realistico e insieme fantasmatico periplo borghese di “La dolce vita” segna la deriva del lungo dopoguerra costringendo il protagonista Marcello a scegliere tra l’estremismo autodistruttivo (il suicidio di Steiner) e l’attesa di una palingenesi purificatrice (il mostro marino del finale).

L’eredità cinematografica che la decade precedente lascia agli anni Sessanta è, insomma, più ricca, sorprendente e tutto sommato positiva di quanto gli storici tradizionalisti ci avevano fatto a lungo credere, ma ciò non toglie che d’ora in poi si registri un forte incremento delle libertà ed eterogeneità espressive e un rilevante innalzamento del livello qualitativo medio. Tanto per cominciare sempre nel 1961 Pasolini esordisce nella regia con “Accattone”, Sordi si esalta nella memorabile interpretazione in “Una vita difficile” e Gassman l’eguaglia con l’altrettanto formidabile show vitalistico di “Il sorpasso”, ma rivolgendo lo sguardo alla vetrina dei premi più prestigiosi si può dire che si passerà di trionfo in trionfo: Leone d’oro a “Cronaca familiare” di Zurlini (ex aequo, 1962), “Le mani sulla città” di Rosi (1963), “Deserto rosso” di Antonioni (1964), “Vaghe stelle dell’orsa” di Visconti (1965) e “La battaglia di Algeri” di Pontecorvo (1966); Orso d’oro a “Il diavolo” di Polidoro (1963); Palma d’oro a “Il gattopardo” di Visconti (ex aequo, 1963), “Signore e signori” di Germi (1966) e “Blow-Up” di Antonioni (1967); Oscar a “Otto e mezzo” di Fellini (1963) e “Ieri, oggi, domani” di De Sica (1964).  Ancora più importante è il fatto che il cinema italiano sembra sospinto da un’energia a vasto raggio in grado di fare esordire una marea di talenti senza emarginare o condizionare in alcun modo i maestri delle generazioni precedenti, riscuotendo puntualmente il favore delle platee messe spesso di fronte ai nuovi modelli narrativi e iconografici. Il cinema di genere (dall’horror all’erotico), in questo fecondo contesto, rivendica la sua centralità e riconquista il posto preminente assegnatogli dalle proprie origini di spettacolo di massa e artigianale: non è un caso, quindi, che nel 1964 esploda con “Per un pugno di dollari” di Sergio Leone il fenomeno del western all’italiana (3 miliardi al box-office) e che l’anno seguente i primi cinque maggiori incassi appartengano tutti al dirompente sottogenere. La Storia, anche quella che espone ferite ancora aperte e ancora non riesce a rientrare nei programmi scolastici, neppure in quelli degli ultimi anni dei licei,  costituisce un deposito ambito e cineasti di varia caratura ma di piena affidabilità professionale come Montaldo, Vancini, Lizzani, Pontecorvo, Loy salgono alla ribalta raccogliendo consensi e polemiche in parti eguali. La politica si svincola dalle strette maglie di una censura retrograda e attacca il potere governativo senza molte remore, correndo dietro con qualche ingenuità finanche alla giovanilistica epopea “rivoluzionaria” pre e post Sessantotto (“Tiro al piccione”, “Le quattro giornate di Napoli”, “Kapò”, “La battaglia di Algeri”, “I pugni in tasca” “La Cina è vicina”, “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto”). La commedia all’italiana, come abbiamo anticipato, tocca l’apogeo della forza creativa e commerciale, incidendo a futura memoria i nomi dei cineasti (Risi, Comencini, Monicelli, Germi, Pietrangeli, Salce) che sia con i soggetti e le sceneggiature approntate dagli infallibili Age e Scarpelli, Sonego, Scola e Maccari, Benvenuti e De Bernardi, sia con la selezione d’interpreti “mostruosi” (in primis Gassman, Sordi, Tognazzi, Manfredi, Vitti), sia con la modernità e la spregiudicatezza dello stile producono a getto continuo titoli oggi considerati essenziali e allora ottusamente snobbati dalla critica cosiddetta impegnata (da “Divorzio all’italiana” a “I mostri”, da “L’armata Brancaleone” a “La voglia matta”). I filmaker sperimentali, provocatori, irregolari come Bene o Schifano possono ritagliarsi spazi imprevedibili e guadagnarsi esegeti raffinati; mentre i “tre cannoni” (Visconti, Fellini e Antonioni) come li definiva irridendoli uno dei più carismatici di quest’ultimi, Goffredo Fofi, vengono incalzati da autori su cui poggerà a lungo l’impalcatura nobile del nostro cinema nonostante continui a essere esposto a crisi più o meno letali (Pasolini, Bertolucci, Rosi, Cavani, Zurlini, Bellocchio, Ferreri, Petri, Taviani… ma è escluso in questa sede dare conto di tutti). Last but not least il divismo, patrimonio quasi esclusivo dell’empireo hollywoodiano, rafforza gli scoop azzardati negli anni Cinquanta, per esempio con il fenomeno delle “maggiorate fisiche” o con l’irresistibile presa popolare dei film usa-e-getta dopati dal vitalismo pirotecnico e anarcoide di Totò, ed edifica una serie di icone del sesso che gestiscono fama e fans passando in scioltezza dai film bassi, a quelli medi e a quelli destinati alle passerelle festivaliere e/o d’arte e d’essai. L’Oscar per l’interpretazione di “La ciociara”, però, vale solo a Sophia Loren la definitiva assunzione ad appena ventisei anni nel firmamento mondiale delle star.         

  

 

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