Pubblicato il 15 Aprile 2010 | da Valerio Caprara
0Cella 211
Autentico scoop dell’ultima Mostra di Venezia, benché confinato nelle collaterali Giornate degli Autori, “Cella 211” (“Celda 211”) solo in apparenza segue la scia del recente capolavoro francese “Il profeta” (peraltro penalizzato in Italia dalla cattiva distribuzione e inesistente promozione). Il longevo e fortunato genere carcerario sicuramente li accomuna, ma lo spagnolo Daniel Monzon è più interessato alle psicologie, i ritmi, le chiavi di lettura del thriller classico che a una nichilistica disamina socio-antropologica. Basta annotare l’ingegnoso incipit che vede il protagonista Juan, secondino al primo giorno di lavoro, coinvolto nella feroce rivolta del suo braccio: svenuto a causa di un crollo nella cella in disuso n°211, il malcapitato decide al risveglio di fingersi un detenuto per salvare la pellaccia… Un’occasione ideale per potere sciorinare l’intera gamma delle bestialità indotte dalla perdita della libertà, dalla coabitazione claustrofobica, dalla sopraffazione come arma di sopravvivenza e soprattutto dal sadismo degli aguzzini che pareggia quello dei ribelli. L’altro leitmotiv, altrettanto seriale (senza nulla togliere alla suspense), è quello dell’uomo timido, irresoluto e “civilizzato” che le circostanze estreme in cui è incorso rendono d’un tratto astuto e brutale come e più dei galeotti (tra cui spicca Luis Tosar nel ruolo dello spaventoso capintesta). La memoria del cinéfilo corre inevitabilmente a “Cane di paglia”, l’apologo etologico di Sam Peckinpah sull’uomo come scimmia omicida che scatenò un po’ a vanvera le ire delle femministe anni Settanta: un paragone che va comunque a vantaggio di una storia filmata con forza e spietatezza in ogni fotogramma.