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Pubblicato il 5 Settembre 2016 | da Valerio Caprara

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Appunti da Venezia 2016: “Indivisibili”.

VENEZIA – Nella comune percezione gli orizzonti perduti di Castelvolturno e del litorale Domizio sono ormai “Indivisibili” da un magma di degrado ambientale, illegalità diffusa e miserie umane. A questo hinterland desolato non mancano certo gli storici, gli studiosi e le istituzioni che registrano, analizzano o agiscono per conto della società, ma dal punto di vista della fiction il vero problema sembra quello di oltrepassare la fotografia dell’esistente per riuscire ad accedere a una dimensione universale. Edoardo De Angelis, dopo avere rifinito la naturale vocazione passando da “Mozzarella Stories” a “Perez”, ha gestito la full immersion in un limbo che corre il rischio di diventare attrattivo proprio perché estremamente repulsivo con accresciuta padronanza professionale, proficua intesa con i giovani e competenti produttori e una discreta spinta narrativa.
“Indivisibili”, così, non solo tramanda il titolo del film presentato ieri nella sezione autonoma Giornate degli Autori, ma può anche segnalare la complessità di un nodo drammaturgico che De Angelis e i co-sceneggiatori Petronio e Guaglianone cercano di districare a modo (poetico) loro. Inutile nascondere che abbondano le incursioni affini culminanti nei cult “L’imbalsamatore” e “Gomorra”, ma l’handicap che condanna le sorelle siamesi Dasy e Viola (Angela e Marianna Fontana) a esibirsi in un freak show neomelodico itinerante, i cui proventi fanno sopravvivere i loschi genitori e un paio di malmessi collaboratori, sorregge sufficientemente il senso di una pietas gravida di sensazioni particolarmente ambigue e contraddittorie. In un crescendo di penose illusioni il riscatto morale ancora prima che fisico si profila grazie all’occasionale consulenza di un chirurgo, però nell’inferno degli emarginati non esistono angeli bensì solo demoni con la maschera degli imbonitori.
Il film corre dunque in bilico o, più appropriatamente, in simbiosi tra il registro grottesco e quello patetico, riuscendo nell’intento grazie alla spontaneità delle protagoniste, alla partecipe versatilità del cast, con note di merito per Massimiliano Rossi e Marco Mario De Notaris, la fotografia anti-pittoresca e i trucchi moderati ma credibili dei Makinarium reduci da “Il racconto dei racconti”; dove, invece, “Indivisibili” sconta qualche debolezza manieristica e qualche narcisismo compiaciuto è sul versante, per così dire, polemico, come nel caso del prete indegno prono alle superstizioni e dell’avventuriero che si chiama Marco Ferreri (capita l’antifona?), ma del rimpianto provocatore ricicla solo un pugno d’improbabili stereotipi.
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