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Pubblicato il 13 Febbraio 2011 | da Valerio Caprara

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America Oggi

Un curioso fenomeno che riguarda il cinema si è affermato negli ultimi anni: già negletto e marginalizzato dalle categorie accademiche tradizionali, il cosiddetto specifico filmico ha conquistato enormi spazi, si è dilatato fuori misura e si è via via trasformato in una sorta d’invadente e ibrido feticcio culturale. Sembrerebbe comunque un ottimo risultato, ascrivibile al lavoro e alla passione instancabile d’illustri pionieri, arditi incursori, operatori indefessi, improvvisatori geniali e orecchianti di ogni ordine e grado; eppure c’è qualcosa di guasto e artefatto, equivoco e fuorviante che ci capita di percepire ogni volta che gli squilli di copertina e le campagne mediatiche si rivelano ai nostri occhi poco ispirati da un capovolgimento della gerarchia tra “pratiche alte” e “pratiche basse”, bensì intimamente connessi alla consumer culture evidenziata, per esempio, dai saggi di Zygmunt Bauman che si sforzano di dimostrare come gli individui nella società contemporanea siano impegnati moralmente e funzionalmente più come consumatori che come produttori. Non si tratta di moralismo spicciolo né di recriminazione da terza età cinefila: il pericolo ci sembra, al contrario, incarnato dall’esaltazione (in apparenza) trasgressiva che prende la forma molliccia e mielosa di un ordine autoreferenziale e per ciò stesso indistinto e sterile. In questo senso recuperare il fil rouge che collega le mitografie ai personaggi, non significa più esercitarsi nei vezzi della critica di papà –secondo la quale la partita dell’ex arte chiave del Novecento si giocava tutta e solo sullo stretto margine, stabilito da chi sa chi, tra autorialità e mestiere- ma semplicemente cercare di chiarirsi le idee a proposito della macchina-cinema districandoci dalla perversione ‘blobbistica’ laddove linguaggio, tecnica, economia, sociologia, arte e storia si confondono.
Per propensione personale e oggettiva collocazione strategica internazionale, il cinema hollywoodiano ci sembra il più adatto a una disamina retroattiva che tenga conto, in sostanza, di quali autori e titoli abbiano garantito la continuità dell’immaginario contemporaneo. Sembrano ormai lontani anni luce i farraginosi dibattiti sull’intrinseca ignominia del moloch industriale, i cui prodotti non potevano essere presi sul serio se non quando avessero attinto, miracolosamente, a una mai ben precisata nozione di “impegno”. Mentre altrettanto démodé è diventata la “politica degli autori”, inventata dai cenacoli parigini e trasformata in chiave fissa per mettere in gabbia qualsiasi riflessione critica. I giovani appassionati odierni, alla cui crescita e maturazione il festival di Giffoni ha dedicato la maggior parte della sua trascinante vocazione maieutica, hanno familiarità con una terza e radicale variante, genericamente identificata come metamorfosi del film hollywoodiano classico: il quale, non esistendo più nel senso tradizionale, si ritroverebbe sciolto da qualsiasi obbligo d’approfondimento in merito alle strutture produttive, allo stile, al divismo ecc. Secondo noi, peraltro, è davvero riduttivo e miope rassegnarsi a considerare i film americani solo come particelle elementari di un organismo snaturato dalle sue proliferazioni intertestuali. A pensarci bene, in effetti, oltre a rivendicare un’aggiornata varietà e ramificazione del quadro (chiamando in causa i grandi serial che hanno rivoluzionato i topoi televisivi, riflettendosi in maniera sorprendente e dirompente in quelli cinematografici), è il caso di fare chiarezza persino sui blockbuster che, sotto sotto, finiscono sempre col costituire il facile bersaglio degli apocalittici mascherati da guru multimediali: proprio nei migliori di essi, per esempio, è possibile rinvenire consistenti tracce dei vecchi codici di autore, genere e mercato. Al di là del marketing, infatti, proprio registi come Burton o Nolan hanno utilizzato con somma abilità il megagenere da multisale per dare forma narrativa e suspense iconografica alle metafore ossessive di un contesto storico, tematico e culturale trattato alla meno peggio da sceneggiatori e registi etichettati come raffinati.
Tratteggiando la galassia dei nomi significativi per le nuove generazioni sopravvissute alla “crisi del visibile”, è logico compattare un vertice che comprende innanzitutto il rimpianto Robert Altman, Francis Ford Coppola, ormai interessato solo alle piccole produzioni di cui gli è facile mantenere il controllo e Steven Spielberg, il cui eterno slancio adolescenziale si è tramutato in solida posizione dominante grazie alla Dreamworks, la Major più giovane e insieme più aggressiva e ambiziosa dello scenario hollywoodiano. Accanto alle rispettive aureole, delineate dal preziosismo descrittivo e psicologico, il tormento conoscitivo e spirituale e il massimalismo visionario, vanno collocati i pianeti Woody Allen, Martin Scorsese e Clint Eastwood che riuniscono nell’identico fulgore il primato antico e quello nuovo, le radici classiche e le contaminazioni, l’iconofilia citazionista e l’iconoclastia destrutturata. Allen non consente a nessuno di sottovalutarlo e di escludere che il prossimo film possa essere migliore dell’ultimo; Scorsese ha un’energia tale da permettergli incursioni nel campo dove il conflitto col cinema è più violento, il serial tv ad alto budget che ha contribuito a nobilitare producendo lo straordinario “Boardwalk Empire”; in quanto all’Old Clint, si può solo chiosare che “Mystic River” è la sua opera più radicale sia nell’urgenza mitopoietica, sia nella peculiare “produzione di senso”.
Si tratta di un denso e allarmante thrilling psicologico sull’immanenza dei traumi infantili, i debiti della morale e le scadenze del destino; un noir concentrato nel quartiere irlandese di Boston, dove tutti si conoscono, si trasfigurano, si rincontrano e si perdono di nuovo: il ventiquattresimo titolo dell’Eastwood regista, tratto da un romanzo di Dennis Lehane e impaginato con antica linearità di stile, conferma il giudizio della prima recensione americana uscita su «Variety», casting is immaculate: in effetti Sean Penn, Tim Robbins e Kevin Bacon, coadiuvati da Marcia Gay Harden e Laura Linney nelle cruciali parti femminili, sostengono l’ordito della trama con prove di recitazione assolutamente imparagonabili. Sia quando prende forma il rovello individuale dei caratteri sia quando prevale il puzzle teatrale alla «Anatomia di un omicidio», il film si svincola, così, dalla routine poliziesca per toccare le corde più profonde e sensibili di una riflessione sulle tragiche contraddizioni e limitazioni della natura umana.
Tre monelli del ghetto, Jimmy, Sean e Dave, sono inseparabili compagni di giochi fino a quando quest’ultimo viene rapito e violentato da una sordida coppia di pedofili. Trent’anni dopo le strade si sono separate, la confidenza è sparita, i casi della vita li hanno fatti maturare in circostanze assai diverse, quando una nuova, terribile tragedia scatena i rimossi fantasmi del passato. La figlia teenager di Jimmy (Penn) viene assassinata senza uno straccio di movente, il padre disperato si abbandona al desiderio della vendetta e Sean (Bacon), diventato poliziotto della squadra omicidi, svolge l’inchiesta convincendosi ben presto di dover inchiodare Dave (Robbins) come inevitabile colpevole.
«Mystic River» tesse i suoi fili d’indagine sbozzando un gruppetto d’incisivi personaggi collaterali (in un cammeo spunta fuori addirittura Eli Wallach, indimenticabile coprotagonista con Clint de «Il buono, il brutto e il cattivo»), ma il ritmo sordo e cupo e l’intensità dei faccia a faccia evocano tonalità da affresco scespiriano, fanno risaltare la sapiente alternanza di sequenze claustrofobiche e aperture laceranti… Come se dalla ferita mentale di ciascuno fuoriuscisse un mostro diverso e poi tutti insieme si accanissero a dilaniarne le fragili difese: le povere case, il distretto di polizia, il luogo del delitto nel bosco, i bar malfamati in riva al fiume, persino la sgargiante parata finale del Columbus Day alludono a una pacificazione impossibile, alla dura legge dell’omertà di classe, all’istinto di sopravvivenza che trova nelle donne sinistre parodie di Lady Macbeth. Penn esibisce nelle scene madri in cui piange la figlia o cerca di resuscitarla col sangue un’eloquenza impressionante; ma anche la miseria del disfacimento comunicata da Robbins e la frustrata determinazione con cui Bacon chiude i conti con gli altri e con se stesso contribuiscono a fare del film il più importante degli anni Duemila.
In quanto al regime del racconto che ha egemonizzato lo sguardo dello spettatore contemporaneo, non possiamo che sottolineare gli exploit di Quentin Tarantino. Di fronte ai suoi film, certamente, il concetto di “testo compiuto” diventa impossibile da applicare ed è ormai ampiamente noto come il cineasta lavori costantemente sull’ipertesto, una sorta di opera aperta percorribile in più direzioni e soggetta a differenti letture. Rispetto a «Bastardi senza gloria», per esempio, qualsiasi riserva di gusto personale si voglia mantenere, non si può che restare sbalorditi per le strepitose finezze d’inventiva, impianto narrativo, ritmo, recitazione, colonna sonora, versatilità stilistica, competenza e passione cinéfila di cui è davvero stracolmo. In un’epoca che vede il cinema spesso costretto a restare sulla difensiva, il ragazzaccio del Tennessee compie il miracolo di farlo risorgere come araba fenice dal crollo della distinzione fra cultura d’élite e cultura di massa: la trama, sia pure lineare e conseguente, risulta incardinata nella progressione audiovisiva e viceversa, rendendo improprio e superfluo il consueto gioco di sponda tra forma e contenuto, realtà e, appunto, messinscena.
C’era una volta… La Storia. Magari quella di Hitler e della seconda guerra mondiale che ci ha regalato alcuni capolavori e molte risciacquature di pellicola. Però Tarantino ha il dono di re Mida e quando inizia a raccontare è come se lo schermo s’illuminasse per la prima volta agli occhi del primo spettatore. La Francia occupata, ma potrebbe essere un western di Ford: il colonnello delle SS Christoph Waltz bracca gli ebrei in un casolare di campagna, ma alle sue grinfie sfugge la ragazza che ritroveremo più tardi a Parigi, demiurga di una sala cinematografica dove la fiaba pulp è destinata a incrociarsi con il super-pulp nazista. In contrappunto alla promessa di vendetta alla «Kill Bill», ecco farsi strada la sporca dozzina dei mazzieri yankee paracadutati oltre le linee, comandati da un Brad Pitt brutale e tontolone e votati alla caccia degli scalpi del nemico come facevano gli Apache. Scandito in capitoli -ognuno dotato di cifra espressiva autonoma (si va dal cinema tedesco di montagna a quello francese sotto Vichy e alla serie B italiana dei Castellari, Fulci, Margheriti)- nonché traboccante delle musiche di Tiomkin, Bernstein, Morricone, Bowie, Ferrio e decine d’altri di cui neppure le case discografiche conservavano il ricordo, il pastiche prima si definisce nei più invisibili raccordi dell’inquadratura, poi prende la rincorsa con irresistibili tornei verbali e infine deflagra in sequenze d’azione geometrica e concisa.
Se il cinema deve fare ancora “sognare”, sostiene Tarantino, sullo schermo il desiderio di giustizia può ribaltare i dati della storia: a patto che a condurre la trance siano personaggi come quelli della bionda diva teutonica che recita il doppio gioco, mentre i guerrieri finto-italiani sanno biascicare solo buonciorno al nemico inatteso poliglotta. Il divertimento è unico proprio perché l’intarsio è follemente minuzioso: non importa tanto pescare le citazioni a una a una, bensì abbandonarsi al piacere di un’immaginazione tanto più efficace quanto più aderente ai tempi, i dialoghi, le tensioni, i sarcasmi preferiti dall’autore. Per diventare un classico basterebbe la sequenza in cui la francesina si prepara a sferrare l’attacco, vestita come Danielle Darrieux, dipinta con i colori Apache e (come Quentin) pressoché drogata dai poteri della pellicola. Su uno scalino appena più basso e più esposto ai venti dell’interpretazione, si pongono i fratelli Joel ed Ethan Coen, i geniali demiurghi del “Grande Lebowski” e gli inventori di una sorta d’iperrealismo prosaico, l’unico mezzo secondo loro in grado di mettere in crisi lo sguardo “stupefatto” e “stupido” dei personaggi e degli spettatori. Se, per esempio, i romanzi di Cormac McCarthy sono quanto di meglio può offrire oggi una letteratura americana cruda, dura e appartata rispetto ai clan newyorkesi, i Coen hanno avuto il merito di pensare per primi a «No Country for Old Men» («Non è un paese per vecchi») anticipando la fortuna cinematografica che già sta toccando all’opera omnia dello «Shakespeare del West». Texas, 1980, ai confini col Messico la pittoresca violenza dei cowboy è stata sostituita dalla ferocia dei trafficanti di droga. Il laconico e solitario reduce del Vietnam Llewelyn (Josh Brolin) capita per caso sul luogo di un massacro e s’impadronisce di una valigetta contenente due milioni di dollari «sporchi», trasformandosi in bersaglio semovente di una spietata caccia all’uomo: capeggiata, per sua sventura, da un mastodontico killer psicopatico (Javier Bardem) che sembra estratto dalle pagine di Steinbeck o dai film di Peckinpah. Il vano tentativo della legge di stroncare gli efferati rendiconti spetta al vecchio sceriffo Bell (Tommy Lee Jones), che incarna una filosofia circonfusa da un disilluso esistenzialismo patriarcale. Fotografia traslucida, dialoghi alla carta vetrata, suspense affidata alla traiettoria degli sguardi, sparatorie sanguinarie, il tutto sul filo di una tonalità sospesa tra il grottesco, il noir e lo ieratico. Peccato solo che non riesca la prodezza principale, quella di trasporre tutta la ricchezza dei temi cari a McCarthy: dal declino del modo di vita western alla lotta permanente degli esseri umani contro il destino e agli ultimi sussulti dell’onore, dell’amore e della giustizia in un mondo che affonda nelle tenebre del caos.
Tim Burton e David Lynch sono, d’altra parte, i registi che hanno compiuto il maggior numero di operazioni vincenti negli ambiti del pluralismo e della frammentazione, dell’eccentrico, dell’atipico e del difforme che restano i tratti distintivi del postmoderno. Nella nostra ottica non si contrappongono, bensì aderiscono alla loro guerriglia contro la ludica follia della storia registi basici come James Cameron, provocatori come Spike Lee e Oliver Stone, tarantinati come John Woo o eredi dello sguardo “ad altezza d’uomo” di un Ford e di un Hawks come Michael Mann. Per concludere questa sommaria ricognizione, ci sembra giusto sottolineare quanto abbiano contribuito all’avanzamento testuale del film e, quindi, a liberarlo dalla paralisi della bulimia scopica e della saturazione visiva Kathryn Bigelow e David Fincher. Non serve peraltro risalire a cult-movies consolidati come “Point Break” o “Fight Club”, perché è ancora più stimolante estrarre la vitamina emotiva e l’allegria allucinatoria da film recenti come “The Hurt Locker” e “The Social Network”.
Non è affatto banale o retorico il primo, ridicolmente accusato di tendenze guerrafondaie per come affronta i crudi risvolti della tragedia irakena; mentre proprio nel mantenersi incollato ai suoi personaggi (soldati di prima linea nell’inferno di Baghdad), l’affascinante regista ribadisce rigore e carisma. I war-movie dopati dagli effetti tecnologici facevano ormai fatica a distinguersi l’uno dall’altro; in questo caso, invece, sulla scia di «Black Hawk Down» l’epica si concentra sul dettaglio dell’inquadratura e della sequenza per distillare i veleni interni secreti da una missione inaudita. Lo spunto deriva, infatti, da un reportage sulle compagnie dell’esercito Usa adibite al disinnesco delle bombe: mentre i terroristi perfezionano ogni giorno in maniera più subdola le loro trappole, a fronteggiarli sono chiamati ogni giorno questi specialisti ad altissimo rischio, magari armati di semplici pinze. Il racconto si sviluppa, così, sui percorsi del sergente James, che mina la coesione del gruppo e sembra agire nella guerriglia con un trasporto sadomasochistico: tra l’orgasmo di una sparatoria, l’effimero rapporto stabilito con un monello indigeno, la tensione insostenibile al cospetto del viluppo di fili e detonatori che emergono come paurosi bubboni dalle auto, dai sacchetti di spazzatura o dai corpi dei kamikaze, l’uomo indurito e disadattato sopravvive come in trance permanente. Un film, dunque, che si fa apprezzare per come coglie il dramma individuale in una cornice corale ed evita gli slogan dozzinali in favore di un approccio ancora più destabilizzante in quanto obiettivo. La Bigelow riesce a esplicitare un concetto che non piacerà alle anime belle, ma assomiglia a quello paradossale di «Trainspotting» dove la seduzione della droga risultava micidiale perché obiettivamente voluttuosa: l’abitudine a giocarsi in pochi secondi la pelle fa sì che molti soldati si trasformino in ossessi del rischio, in drogati dell’adrenalina. Calibrato su una sceneggiatura insuperabile per chiarezza e coerenza e per nulla esoterico (anche se teoricamente rivolto agli specialisti in materia, che pure sono milioni), “The Social Network” è un film tanto intelligente quanto allarmante. Il difficilissimo lavoro dei doppiatori italiani forse non basta a dare pieno conto della ricchezza e l’equilibrio dei fitti e incalzanti dialoghi tesi a comporre, fotogramma per fotogramma, una sorta di saggio in forma di dramma che mette in luce la possibilità molto attuale e molto americana di diventare miliardari a vent’anni senza peraltro arrivare a godersi la (vera) vita. Ed è interessante come diventi insieme arduo e superfluo parafrasare la trama tratta da un romanzo sulle origini di Facebook, proprio perché il talentuoso Fincher (non per niente l’autore di classici moderni come “Seven” e “Fight Club”) ha lavorato soprattutto sui dettagli, gli incastri e le allusioni affrontando alla sua maniera raffinata le potenzialità e le ambiguità dell’era digitale.
Lo studente di Harvard Mark Zuckenberg, interpretato in maniera impagabile da Jesse Eisenberg, dopo essere stato mollato dalla girlfriend crea nell’arco di una nottata un sito dove sono messe a confronto tutte le studentesse “scopabili” lasciando agli utenti la possibilità di stabilirne via mail la relativa classifica. Il successo della trovata è enorme e ben presto il ragazzo ebreo e proletario viene avvicinato da una coppia di prestanti gemelli altoborghesi, che sono alla ricerca del programmatore di una pagina web in grado di connettere online gli iscritti alla prestigiosa università. Da questo momento in poi Mark, grazie anche all’apporto prima dell’amico Eduardo e poi del più dandy e fascinoso Sean, entra in una spirale mozzafiato che include l’esplosione di Facebook come sterminata comunità virtuale, l’espansione a catena dei finanziamenti e gli svariati processi intentati da chi si è sentito via via scippato delle proprietà intellettuali. Così un argomento narrativamente frigido arriva a evocare, al ritmo sordo e smaterializzato impresso dalla regia, non solo e non tanto la genesi del sito più cliccato al mondo, ma anche le questioni poste dall’incredibile business che ha fatto guadagnare cifre incredibili “vendendo” nient’altro che le idee e le identità dei navigatori. I banali/geniali snodi esplorati dalla commedia che si avvita in thrilling legale -dall’arrivismo al delirio d’onnipotenza, dall’ansia di relazioni al vuoto esistenziale, dal cinismo sessuale al fenomeno delle gerarchie di classe più o meno provvisoriamente rovesciate- risultano, dunque, al massimo grado eloquenti perché esenti dal petulante moralismo misoneista tipico di tanto cinema che sembra fluire all’indietro. Prigioniero di non-luoghi che, al contrario del pozzo da incubo di Poe, a causa di troppa luce d’immagini producono l’accecamento, lo spettatore contemporaneo vuole continuare a nutrirsi di miti & maestri, ma è costretto a riconoscerli al tatto di un cinema che pulsa come il soffice bip di un videogioco.

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