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Pubblicato il 5 Luglio 2016 | da Valerio Caprara

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Addio Kiarostami

Ex agente di polizia stradale, creativo pubblicitario, fondatore di un dipartimento cinematografico per bambini e adolescenti, Abbas Kiarostami, morto ieri all’età di 76 anni a Parigi dove era ricoverato in seguito a una grave malattia, può considerarsi non solo per la marea di premi e riconoscimenti accumulati uno dei maestri del cinema d’autore internazionale. Nato a Teheran il 22 giugno del 1940, nonostante i continui rivolgimenti vissuti dal suo paese aveva deciso di rimanere in patria anche dopo la rivoluzione degli ayatollah del ’79 e d’ingaggiare una prudente lotta con gli organi deputati dal regime a sorvegliare le attività artistiche. Con una discutibile sortita, in effetti, Kiarostami ritenne addirittura fortunato quel drammatico punto di non ritorno liberticida: “Una delle ragioni è la messa al bando dei film europei e americani che ha dato ai filmaker iraniani l’opportunità di sperimentare… Le difficoltà contro le quali si sono trovati a dovere combattere li hanno, infatti, costretti a riflettere maggiormente sulla natura del loro lavoro”.

Nel ’70 gira il primo di una lunga serie di corti (Il pane e la strada), ma dopo avere firmato tre lungometraggi una vera notorietà all’estero glie la conferisce Dov’è la casa del mio amico? (’87), intenso pedinamento neo-neorealistico di un ragazzino che si scontra con l’indifferenza degli adulti quando decide di riconsegnare a un compagno un quaderno dimenticato. Nel corso dei Novanta la sua produzione si fa nutrita e la critica occidentale non esita a riconoscergli straordinarie qualità di affabulatore dal tratto lieve, astratto e polisemico, senz’altro originato dall’influsso concettuale delle filosofie sincretiche dell’antico Islam persiano. Da Close-Up a E la vita continua…, da Sotto gli ulivi a Il sapore della ciliegia (Palma d’oro ex aequo al Festival di Cannes 1997), il suo cinema cerca di chiarire il caos del mondo e i modi in cui gli uomini cercano d’interpretarlo senza artifici tecnici particolari, bensì ricorrendo all’immaginazione più disinibita: “Il cinema è intorno a noi, ogni momento, dappertutto”. Il convincimento che tutto può essere filmato perché tutto è già, in potenza, film, lo porterà a rifinire in seguito titoli secondo noi meno limpidi, più condizionati dalla suddetta idea in pericolo d’assolutismo: Il vento ci porterà via e il documentario ABC Africa meno, in ogni caso, del sopravvalutato Dieci (Ten, 2002), che cerca di tramandare il complesso microcosmo delle donne iraniane contemporanee costringendo l’intero sviluppo narrativo nel procedere di un’automobile e nello svariare delle espressioni in primo piano dei personaggi che s’alternano nel suo abitacolo. Anche i successivi film usciti tra il 2005 e il 2012 Tickets (cofirmato da Olmi e Loach), Copia conforme e Qualcuno da amare confermano l’impressione di un grande autore diventato un po’ succube della propria ricerca e deciso a distinguersi dall’offerta mainstream prim’ancora che con le trame e l’approccio stilistico, con un’attenzione all’attualità in fondo non congeniale. In Qualcuno da amare, peraltro, ispirato alla tecnica compositiva dello scultore/pittore svizzero Giacometti, Kiarostami ebbe l’audacia di abbandonare la terra d’elezione artistica, l’amato Iran, per immergersi nell’incontro sotto il cielo di Tokyo di un vecchio docente di sociologia e una ragazza semiprostituta: il fulmineo e inatteso finale di violenza ci sembra che tramandi il senso della yubris fatale di un maestro che rischiava di non essere più se stesso.

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