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Pubblicato il 25 Agosto 2019 | da Valerio Caprara

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Addio a Carlo Delle Piane

“Lei non saprà mai con quale punto l’ho sfidata a giocarsi 250 milioni, è l’unica condizione che le ho posto e mi sembra un dettaglio trascurabile…”. E’ curioso eppure del tutto motivato che tra la valanga di comunicati e necrologi dedicati alla scomparsa dell’ottantatreenne Carlo Delle Piane spicchi l’omaggio del sito AssoPoker, il primo portale italiano di poker online: la frase estratta dai dialoghi di “Regalo di Natale” con cui il personaggio dell’ambiguo avvocato Santelia suggella sul tavolo verde il proprio diabolico piano suggella, in effetti, uno dei vertici della bravura dell’attore e soprattutto contribuisce a liberarlo dalla sbrigativa condanna alla qualifica di brutto-ma-simpatico caratterista. La triste notizia è stata divulgata ieri dalla moglie napoletana Anna Crispino che, a dispetto di una differenza d’età di 37 anni, lo aveva sposato nel 2013 coronando una lunga consuetudine di affinità artistica e profondo affetto evidenziati, peraltro, con il debito pudore e una certa grazia nello spettacolo tra parole e musica “Io, Anna e Napoli” scritto dallo stesso Delle Piane insieme a Giuseppe Aquino col contributo di fotografie, video e divertenti aneddoti e andato in scena con grande successo nell’aprile del 2010 al teatro San Ferdinando. Appena nel maggio scorso, tra l’altro, laCrispino, cantante e attrice, amante e interprete del repertorio classico e contemporaneo della tradizione napoletana nonché impegnata nel sociale, schierata al fianco di minori a rischio, pazienti psichiatrici, malati di Alzheimer, donne vittime di violenza aveva curato in prima persona la celebrazione sul palco dell’Auditorium di Roma dei settant’anni anni di carriera del marito. Scorrendo l’autobiografia “Signore e signori… Carlo Delle Piane” curata da Massimo Consorti (ediz. Testepiene, 2011) si possono, certo, riepilogare date e avvenimenti che tramandano la storia minimalistica del cinema italiano, una storia fitta di colori, umori, retroscena, atmosfere di stagioni produttivamente rigogliose quasi sbirciata da un angolo visuale partecipe, schivo, sommesso, mai rancoroso o competitivo; però è indubbio che il vero scoop della carriera dell’attore sta nella frattura epocale della sua filmografia. Centodieci partecipazioni ai cast di titoli più o meno fortunati che partono dal 1948 e arrivano al 2017 già vogliono dire molto –una sorta di smorfia beffarda rivolta agli esangui chierici del cinema d’arte e d’essai-, ma una cesura netta come quella provocata nel 1977 dal ruolo di uno dei protagonisti di “Tutti defunti… tranne i morti” regalatogli da Pupi Avati ha pochi eguali nelle enciclopedie del settore.

Nato nel centro storico di Roma il 2 febbraio del 1936, l’allampanato secondogenito dei tre figli del sarto d’origine teramana Francesco e la casalinga romana de Roma Olga Rossi, apparentemente handicappato dalla pallonata che gli ha deformato il naso e alterato l’espressione viene scelto dagli assistenti di Duilio Coletti per il ruolo di Garoffi nell’impettita e nostalgica versione schermica di “Cuore” interpretata dalle star Vittorio De Sica, Mercader, Ninchi, De Lullo, Randone. Cooptato a Cinecittà passa senza sosta da un ingaggio a un altro, anche perché protegé del mentore Vittorio e da Aldo Fabrizi, compagno di avventure giovanili nell’enclave di Campo de’ Fiori, comparendo regolarmente a rimorchio delle frenetiche performance di Totò e Sordi. Purtroppo negli anni le parti che gli affidano tendono a farsi più sciatte, come per esempio la replica infinita del personaggio soprannominato Pecorino, anche perché l’ingenuità ridanciana di “Mamma mia, che impressione!”, “La famiglia Passaguai”, “E’ arrivato l’accordatore” e i cult “Guardie e ladri” e “Un americano a Roma” di Steno (1954), in cui scolpisce a futura memoria grottesca l’amico di Nando Mericoni soprannominato Cicalone, sono sostituite dall’arruolamento a getto continuo nell’opera omnia di un non troppo schizzinoso Marino Girolami. Non è che “Sette canzoni per sette sorelle” o “Serenatella sciué sciué”, “L’amico del giaguaro” o “Quanto sei bella Roma” , “Ferragosto in bikini” o “Totò e Cleopatra” appaiano oggi ignobili agli occhi di spettatori abituati alle nefandezze dell’odierna comicità infarcita di volgarità e demagogie qualunquiste, ma quando lo snodato Carletto, disegnato sullo schermo come lo schizzo di un caricaturista di classe, si ritrova coinvolto in operazioni di maggiore spessore la differenza emerge: basti pensare non solo a “Fortunella” di Eduardo, “Caccia alla volpe” ancora di De Sica, “Che?” di Polanski, “Le avventure di Gerard” di Skolimowsky o il cattivista “Senza famiglia, nullatenenti cercano affetto” di Gassman, ma anche al suo memorabile Bojetto, il figlio di Mastro Titta incarnato nella mole di Fabrizi, della commedia musicale “Rugantino” di Garinei e Giovannini portata trionfalmente in tournée anche a Broadway. L’incontro con Avati (quindici film, tra cui i pregevoli “Jazz Band”, “Cinema!!!”, Festa di laurea”, “Noi tre”) ribalta, come premesso, la bulimia in operosità, il macchiettismo in pathos, le battute di grana grossa in sfumature psicologiche e poco ci manca che la sua poetica bruttezza si giovi di una percezione meno sbracata degli spettatori. Grazie al perfetto meccanismo di “Regalo di Natale” vince, così, la Coppa Volpi per la migliore interpretazione alla Mostra di Venezia dell’86 e all’acquerello dolceamaro del professore invaghito della bella collega di “Una gita scolastica” il Nastro d‘argento di migliore attore, il Globo d’oro e il Premio Pasinetti, riconoscimenti sacrosanti a cui s’aggiungeranno altre nomination in grado di risarcirlo da qualche recriminazione malinconica. Prima di incidere un disco intitolato “Bambini” i cui proventi sono stati devoluti in beneficenza e rivestire le grisaglie di Santelia in “Chi salverà le rose?” (2017) di Furesi, dirige e interpreta l’unico e non riuscito film da regista ”Ti amo Maria”, ma l’epigrafe del suo viaggio metamorfico è racchiusa nel titolo del sequel del film più noto, “La rivincita di Natale” girata da Avati nel 2004. A tutti noi cinefili, infatti, viene spontaneo leggerla come “La rivincita di Carlo”.

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