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Pubblicato il 27 Settembre 2018 | da Valerio Caprara

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L’uomo che uccise Don Chisciotte

L’uomo che uccise Don Chisciotte Valerio Caprara
soggetto e sceneggiatura
regia
interpretazioni
emozioni

Sommario: Giovane e arrogante regista pubblicitario americano torna in Spagna, dove dovrà confrontarsi con gli impazziti o delusi attori del suo precedente tentativo di mettere in scena il capolavoro di Cervantes.

1.5


Un grandioso film epico-noir ci sarebbe, ma, purtroppo, non è quello che da oggi si può vedere in sala col titolo “L’uomo che uccise Don Chisciotte”. Il riferimento, solo in apparenza divagante, chiama in causa una delle più note gestazioni maledette ovvero quella del tentativo durato quasi trent’anni di Terry Gilliam di girare un film sull’immortale personaggio seicentesco di Cervantes: l’impresa, del resto in linea col mondo onirico e sovversivo dell’autore di “Brazil” e “L’esercito delle dodici scimmie”, è stata, infatti, bersagliata da una serie infinita di disgrazie e impedimenti -dalla distruzione del set a opera di una tempesta agli abbandoni dei protagonisti designati Rochefort e Depp, dal ritiro dei finanziatori alla rottura con l’ex coproduttore Branco e alle decine di revisioni dell’adattamento- non a caso tramandate dal documentario “Lost in La Mancha”. Quest’odissea votata alla catastrofe degna di Orson Welles ha, in effetti, generato un film per forza di cose sproporzionato rispetto a se stesso, sottodimensionato rispetto all’ossessione dell’autore, penalizzato dall’inevitabile esaurimento del taglio gigantesco del progetto, quasi un dedalo, insomma, zeppo di tic autoreferenziali e riciclaggi dei meccanismi del cinema-nel-cinema.

In partenza ecco Toby, purtroppo affidato alle limitate doti recitative dell’onnipresente Driver, capriccioso e vanesio regista modaiolo arrivato in Spagna per girare l’ennesimo “Don Chisciotte” ed entrato in possesso di una copia pirata in Dvd del suo primo tentativo d’adattamento del capolavoro. Capita l’antifona? Spinto da inespressi sentimenti, il beffardo alter ego di Gilliam torna nel paesino dove aveva girato dieci anni prima scoprendo che quella magica esperienza ha distrutto la vita degli attori presi dalla strada nonché indotto a un’autentica pazzia il calzolaio Javier (l’ottimo Pryce) ormai identificatosi per sempre nel mitico protagonista. I vecchi vagabondaggi dovranno, così, ricominciare col il giovane e arrogante yankee, però, costretto a confrontarsi nell’identità di Sancho Panza col parossismo teatrale del fiero divo britannico in quella del Cavaliere dalla triste figura. Immerso senza il freno narrativo di una sceneggiatura plausibile nelle prevedibili peripezie grottesche, “L’uomo che uccise Don Chisciotte” oscilla tra il poeticismo a buon mercato –tutto grand-guignol, musiche stordenti, riprese deformate e bricolage danteschi più che alla Cervantes- e la vaga volontà di sputtanare le letture tradizionali. Ne esce fuori un pasticcio spesso funestato da comprimari di dubbia resa calati nelle incarnazioni pret-à-porter dei russi oligarchi, le escort pronte a tutto, i produttori banditi e gli immancabili migranti. Il gioioso Gilliam di un tempo sembra sostituito da un allestitore di carnevali provinciali chiaramente a disagio nell’attingere alle possibilità offerte dagli effetti speciali in digitale e quindi penalizzato nel portare a termine l’impresa da velleità inappagate, inceppamenti estetici e soprattutto dal complesso di colpa di avere perso troppo tempo lottando contro i mulini a vento del cinema moderno.

L’UOMO CHE UCCISE DON CHISCIOTTE

DRAMMATICO, FRANCIA/SPAGNA/GRAN BRETAGNA 2018

Regia di Terry Gilliam. Con: Adam Driver, Jonathan Pryce, Stellan Skarsgard, Olga Kurylenko

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