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Pubblicato il 22 Dicembre 2010 | da Valerio Caprara

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A proposito del teatro Mercadante – Risposta a Mario Martone

Sulle vicende del Mercadante si susseguono in queste ore dichiarazioni di svariante vigore polemico. In linea di principio si tratterebbe di un fenomeno utile e stimolante, in quanto volto ad approfondire i compiti e i termini di una politica culturale che possa affrontare le ardue problematiche artistiche, economiche e gestionali in gioco senza dovere subire conflitti pregiudiziali, processi di piazza o ricatti di monopoli intellettuali. La lettera di Mario Martone, pubblicata ieri da “Il Mattino”, non può peraltro che farci riflettere sul grado d’imbarbarimento di un dibattito stravolto nel segno del furore ideologico e del livore personalistico.

Non si capisce, in effetti, come alcune opinioni più che legittime si trasformino nella prosa dello scrivente in un teorema apodittico, un amarcord al veleno dai risvolti a tratti grotteschi imbastito con se stesso nella parte del buono, dedito all’orgasmo dello sperimentalismo e De Fusco in quella del cattivo ”amante del lusso, dell’aristocrazia, del profumo della vita agiata”. Con un passaggio che da Pitigrilli porta dritti ai feuilleton di Mastriani: la contrapposizione tra un padre (il proprio) “umile pellicciaio” e l’altro (del reprobo), grande storico dell’architettura segnato dalla colpa d’essere “socialmente affermato”. Sorvolando per licenza poetica sulla circostanza che, non solo in questa città, i pellicciai rischino assai più dei professori universitari l’inebriamento dello sfarzo e della voluttà.<br />Insomma comunicando il proprio parere sulla sostituzione di un bravo direttore di teatro pubblico con un altro altrettanto, se non più noto e stimato (normalissimo turn over sul quale ben più competentemente si è espresso Francesco Barra Caracciolo, l’unico giurista presente nel Cda del Mercadante), Martone consegna al lettore una sorta di trattatello sulla differenza sociologica, antropologica, fisiologica e finanche morale che corre tra se stesso (pronto a trasformarsi con elegante capriola in critico) e i colleghi registi “dai risultati non memorabili”. Devo confessare, però, che la mia sorpresa non dovrebbe essere tale. Anche nel campo che mi riguarda da vicino, il cinema, Martone si è sempre mostrato (eufemisticamente) insofferente alle critiche. Come certifica il vezzo di chiamare “nemico” chiunque abbia osato manifestare perplessità nei confronti dei suoi film. Se qualcuno volesse riprendere il suo metodo, potrebbe per esempio rievocare i tormenti che inflisse ai tempi della sua discussa direzione al Teatro Argentina a un maestro tollerante e generoso come Walter Pedullà. O interrogarsi sul fatto che di “ingerenze del potere” sia forse il meno indicato a parlare, visto che a pochissimi altri registi italiani sono stati conferiti altrettanti attestati politici (e nomine istituzionali).

Si può perdonare questa incredibile caduta di stile solo rispettando l’amour-passion che lo indusse a dedicare un intero episodio del film “I vesuviani” all’ascesa del sindaco Bassolino sulle pendici del Vesuvio. Peccato che questa veste da pensoso e sofferente allievo pasoliniano sia, nel caso di cui discutiamo, abbandonata in favore di un’arroganza, per così dire, belligerante senza pari. Un piano strategico degno di von Clausewitz, in cui indulge a vedersi dalla parte dei valori sani, delle linee giuste, degli uomini veri (al contrario di personalità che tutti credevamo autorevoli e onorabili come il professore Sergio Sciarelli, Laura Angiulli o Giulio Baffi), auto-insediatosi com’è sull’”ultimo baluardo” di una città che, “vergogne del Mercadante” a parte, versa, per colpa di chissà chi, “in uno stato pietoso”. In questo senso, sembra dire il the end martoniano, Luca De Fusco piacerà a chi piace la munnezza che ci ammorba e circonda da anni… Ancora e sempre per l’irrefrenabile bisogno di un nemico da abbattere.

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