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Pubblicato il 30 Settembre 2010 | da Valerio Caprara

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 In memoria di Curtis

Nella puntata della serie “CSI” intitolata “Grave Danger – Sepolto vivo” e firmata nel 2005 da Quentin Tarantino lo avevano riconosciuto in pochi: l’anziana star vi appare, infatti, seduta a un tavolo di night mentre scherza sui travestimenti di “A qualcuno piace caldo”. Autocitazione impagabile nonché inoppugnabile perché proprio nel film-culto di Billy Wilder, dove gareggia in bravura con Jack Lemmon fuggendo dai gangster e inseguendo le grazie di Marilyn, Tony Curtis, spentosi ieri a Las Vegas dopo una lunga malattia, ha trovato il ruolo ideale, espresso le migliori qualità e tramandato ai cinéfili il segreto della sua vocazione artistica.

Nato il 3 giugno del 1925 nel Bronx, New York, da una famiglia ebrea di origini ungheresi, Bernard Schwartz cresce in assoluta povertà e ancora minorenne si mischia alle temibili gang di quartiere. Per sua fortuna pochi anni più tardi scopre il teatro e, subito dopo avere servito la patria in Marina nel corso della Seconda guerra mondiale, entra a far parte del prestigioso New York’s Dramatic Workshop. Ingaggiato da una troupe amatoriale per una tournée estiva nei Monti Catskill, continua a farsi le ossa ai margini di Broadway finché non viene notato per l’interpretazione di “The Golden Boy” e messo sotto contratto dall’Universal che gli modifica il nome prima in James Curtis e poi in Anthony Curtis. Esordiente sullo schermo nel 1949 (“Cocaina”, “Doppio gioco”, La roulette”), brucia le tappe grazie ad alcune particine tutte giocate sulla levigata fotogenia da pretty boy e diventa protagonista a fuor di popolo in deliziosi successi d’epoca come “Il principe ladro”, “Il mago Houdini”, “Lo scudo dei Falworth”, “Trapezio” o “Le avventure di Mister Cory”. Siamo nel pieno di una delle età dell’oro di Hollywood, quando la tecnica e l’inventiva di registi e sceneggiatori procura ai generi popolari come l’avventuroso, il thrilling, il giallo un quid inimitabile, molto spesso sublimato dalla grazia e la grinta degli attori e Curtis ne diventa una delle icone, per come si avvale della spontanea versatilità, della foga trascinante e soprattutto per come sa modulare il fascino virile nell’arduo quadro della commedia e nei più sottili ritmi comici e autoironici. Gli anni Cinquanta e Sessanta sono, così scanditi, dalle sue incarnazioni che, come avveniva in quel magico periodo, risultano sempre diverse eppure sempre uguali: baldo innamorato o molesto seduttore, soldato coraggioso o cinico tormentato, Curtis è uno di quei personaggi “più grandi della vita” che sorprendono e impressionano spettatori semplici e veri appassionati ogni volta che si spengono le luci in sala, ma nello stesso tempo li rassicurano perché si confermano in fondo familiari.

Tra i titoli che sfuggono non di rado all’altezzosa critica del tempo, ma s’irradiano impetuosi nell’immaginario, spiccano così “Piombo rovente” (‘57), “Parete di fango” (’58, unica nomination per l’Oscar conquistata in carriera), “I vichinghi” (’58), “Operazione sottoveste” (’59), “Spartacus” (’60), “I cinque volti dell’assassino” (’63) o “La grande corsa” (’65). E’ chiaro, però, che la propensione alla tonalità brillante resta legata al duetto con Jack Lemmon in “A qualcuno piace caldo” (’59), con la pantomima del corteggiamento en travesti che, rafforzata dal magnifico doppiaggio italiano di Pino Locchi, gli consente d’essere all’altezza del partner fuoriclasse nello sviluppare i temi suggeriti dal copione e trasmettere al pubblico un brivido di beffarda trasgressione allora tutt’altro che scontato. Recentemente Curtis, che ha avuto un’intensa vita sentimentale rimarcata da ben sei matrimoni (il primo con Janet Leigh è stato il preferito dalla cronaca mondana, oltre a generare un’indiavolata figlia d’arte come la Jamie Lee Curtis di “Un pesce di nome Wanda”), ha rivelato in uno dei tanti libri autobiografici di avere avuto una relazione clandestina con la Monroe. Una sincerità tardiva che poco o nulla aggiunge all’alchimia che ancora si sprigiona da quel girotondo di gag irresistibili. Quando la verve comincia a scemare all’aba dei Settanta, Curtis trova l’antidoto e interpreta uno dei più fortunati telefilm della storia, “Attenti a quei due” (“The Persuaders”): un perfetto mix giallo-ironico-sexy, dove nel ruolo del playboy yankee Wilde dà vita a infinite e gustose schermaglie con il raffinato lord inglese Sinclair interpretato da Roger Moore. In seguito e sino all’omaggio tarantiniano centellina, comunque, le apparizioni da caratterista, riuscendo a segnare qualche punto degno dell’antica classe in “Gli ultimi fuochi”, “La signora in bianco” o “Assassinio allo specchio”. Molto più interessanti, del resto, delle incursioni in campo letterario (il romanzo “Kid Andrew Cody & Julie Sparrow”) e pittorico (la nota serie dei ritratti, guarda caso, di Marilyn).

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