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Pubblicato il 12 Settembre 2010 | da Valerio Caprara

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 Tributo a Chabrol

Il rimpianto per la scomparsa di Chabrol, avvenuta ieri mattina nella “sua” Parigi, si sente più forte all’epilogo di un maxifestival come quello di Venezia. Si dà il caso, in effetti, che il regista francese abbia perseguito nella sua lunga carriera un’idea di cinema basata sulla tenuta dello stile e la vitalità del racconto che in questi tornei mediatici sembra ormai superflua, se non addirittura sconveniente. Grazie a un pugno di capolavori, ma soprattutto a un numero impressionante di perfetti film cosiddetti “medi”, Chabrol ha messo in scena i legami intercorrenti fra traumi privati e disarmonie collettive nel segno di una prospettiva morale, eppure mai moralistica, che gli ha permesso di esplorare a beneficio del pubblico i lati oscuri della sua classe, la borghesia, senza dovere ricorrere a schemi ideologici o narcisismi estetici. Proprio l’aver prediletto temi come la smania di potere, di ricchezza, di sesso o di un controllo totale sulla realtà destinato alla follia ne fanno, inoltre, tra gli ex capofila della Nouvelle Vague quello più legato al giallo e al noir, quasi un alter ego di Simenon nel campo della scrittura audiovisiva. Come per quest’ultimo, infatti, i codici del genere gli offrono lo strumento ideale per inserire gli effetti (anche delittuosi) dei contrasti, le fragilità, le ipocrisie, le paure e i compromessi dell’animo umano all’interno del normale flusso esistenziale: “Provo orrore per ogni specie di clistere mentale e preferisco che il senso delle cose sia nascosto in qualche parte, ma non tanto nascosto da non essere trovato”.

Nato nella capitale il 24 giugno 1930, Claude Chabrol si scopre agguerrito cinéfilo già all’età di tredici anni e non è una sorpresa per il padre farmacista che nel dopoguerra interrompa gli studi universitari per seguire una vocazione irrefrenabile. Dopo avere scritto sul “Mystère Magazine” e avere lavorato come addetto stampa della Fox, familiarizza con Truffaut, Godard e Rohmer nel segno delle rivoluzionarie riflessioni del filosofo e critico spiritualista André Bazin. Confluito insieme al gruppo nei “Cahiers du cinéma”, prende parte nel corso degli anni Cinquanta all’opera di demolizione dell’approccio tradizionale, letterario, accademico ai valori della settima arte che porterà, tra l’altro, alla rivalutazione di cineasti come Bunuel, Lang, Ray, Anthony Mann e soprattutto Hitchcock. Proprio sul maestro del brivido scrive nel ’57 insieme a Rohmer (morto pochi mesi orsono) un saggio diventato uno dei manifesti della nuova critica, nonché la fonte principale del successivo e celeberrimo “Il cinema secondo Hitchcock” di Truffaut: la natura dei personaggi e i meccanismi del delitto, i canoni stravolti della logica morale e la sapiente manipolazione del voyeurismo connaturato al medium sono gli aspetti teorici che lo intrigano, ma anche i cardini di un culto giovanilistico e di un anarchismo neoromantico che stanno per trasformarsi nella spinta creativa iniziata con “Le Beau Serge” nel ’57 e fermatasi solo con “Bellamy” presentato alla Berlinale dello scorso anno in occasione dell’Orso d’oro alla carriera.

La grandezza di Chabrol sta nell’equilibrio tra le produzioni particolari e sperimentali e quelle più costose e commerciali che gli consente di mettere sempre a profitto uno stile aderente tanto alle psicologie quanto ai fatti e agli ambienti. Nella prima parte della carriera esaltato grazie alle sottili tensioni di “I cugini”, le pericolose relazioni erotiche di “Les Biches” e del sublime “Stéphane, una moglie infedele” (interpretato dalla consorte del tempo, la conturbante Stèphane Audran) o le originali geometrie thrilling di “Landru”, “Delitti e champagne”, “Ucciderò un uomo”, “Il tagliagole” e “Trappola per un lupo”. Insuperabile nel descrivere i nidi di vipere della provincia elegante e appartata, Chabrol non si tira indietro davanti all’azione (“Sterminate Gruppo zero”), ma imbocca la piena maturità artistica con “Violette Nozière” (1978) che segna anche il suo cruciale incontro con Isabelle Huppert (migliore attrice a Cannes e in seguito sua vera e propria musa). Finissimo conoscitore dell’animo umano, non manca di rilevare l’humour nero che collega la vita alla morte e i benefici dello slancio vitalistico (le gioie del cibo in primis) anche nei titoli più crudeli e demistificatori: da “L’ispettore Lavardin” a “Il grido del gufo”, da “Un affare di donne” a “Giorni felici a Clichy”, da “Madame Bovary” a “Betty”, da “L’inferno” a “Grazie per la cioccolata”, da “Il fiore del male” a “La commedia del potere”. Ed è per questo che gli (ci) hanno regalato il meglio di sé attori del calibro di Belmondo, Piccoli, Rochefort, Brialy, Béart, Serrault, Depardieu.

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