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Pubblicato il 13 Aprile 2010 | da Valerio Caprara

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Addio a Werner Schroeter

Werner Schroeter, spentosi ieri a Kassel all’età di sessantacinque anni, nonostante le sue sortite artistiche si fossero fatte rare nel tempo, lascia un grande vuoto nel gruppo di famiglia dello spettacolo europeo. Il polivalente cineasta (è stato anche sceneggiatore, direttore della fotografia, montatore e attore, nonché rinomato regista d’opera) ha contribuito, in particolare, in maniera decisiva alla rinascita del cinema tedesco nel secondo dopoguerra che ha rovesciato la tradizione nazionale aprendosi alle più ardite contaminazioni postmoderne. Accanto al geniale Fassbinder, all’”americano” Wenders, a Kluge, Reitz, Syberberg, Herzog ha segnato, in effetti, la strada di un’iniziale rigidezza autoriale che si rende via via disponibile alla ripresa di contatto con i generi, i codici spettacolari e le pratiche industriali di coproduzione internazionale. Nato in Turingia nell’aprile del 1945, Schroeter realizza alla fine dei Sessanta singolari cortometraggi in chiave gay dedicati alla “madre artistica” Maria Callas; un periodo presto superato dalla vocazione sperimentale/decadentistica che lo conduce alla realizzazione di curiosi melodrammi sospesi tra la ieraticità underground e la voluttuosa immersione nel kitsch (“Salomé” e “La morte di Maria Malibran” interpretati dall’inseparabile primadonna Magdalena Montezuma).

Una forte notorietà (con il corollario d’importanti premi a Taormina, Chicago, Berlino) tuttavia lo gratifica grazie a “Nel regno di Napoli”, girato nella nostra città nel 1977 e uscito l’anno seguente: un film-film allo stesso tempo neorealistico ed espressionistico, folkloristico e raffinato, armonico e stridente, recitato in dialetto dal formidabile coro di professionisti e non professionisti locali capeggiato dall’erinni dominatrice Ida Di Benedetto e composto, tra i tanti, da Liana Trouché, Antonio Orlando, Cristina Donadio, Renata Zamengo, Dino Mele, Margareth Clementi, Raoul Gimenez, Patrizio Rispo. Non a caso, nel raccontare la storia di Napoli dagli eventi delle Quattro giornate agli anni Settanta attraverso le traversie di due famiglie plebee, s’avvale della fondamentale collaborazione di Gerardo D’Andrea che, nelle vesti di cosceneggiatore, aiuto regista e attore (in sostanza di genius loci) gli permette di cogliere i più pregnanti suoni, colori, umori, miti & ossessioni dell’odiosamata metropoli, unica e indefinibile nel suo inestricabile intreccio di splendore e abiezione. Il successivo “Palermo o Wolfsburg”, sempre con la Di Benedetto e prodotto dall’ineffabile conterraneo Peter Berling, non si fonde allo stesso grado d’incandescenza nonostante l’Orso d’oro vinto alla Berlinale dell’80; né hanno mai convinto titoli come “Il giorno degli idioti” con la Bouquet o “Deux” e “Malina” con la Huppert. Come Carmelo Bene, a cui è stato paragonato, è chiaro come il meglio del talento l’abbia infine donato al teatro.

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