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Pubblicato il 17 Febbraio 2010 | da Valerio Caprara

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Il resto di Gomorra

E’ singolare e forse istruttivo notare come il successo con relativo e alquanto fragoroso seguito di premi & polemiche di Gomorra (2008), il film tratto dal romanzo-verità di Roberto Saviano, abbia fatto crollare il castello di carte encomiastico costruito attorno al fenomeno del cosiddetto nuovo cinema napoletano. Il quale, come si ricorderà, avrebbe dovuto incarnare secondo molti esegeti un automatico e corroborante contrappunto sul piano artistico del “rinascimento” della città in vari modi collegato ai corsi e ricorsi politici legati alla figura di Antonio Bassolino. In occasione di alcuni approfondimenti saggistici, avevamo già segnalato la bizzarria dell’equazione; secondo la quale, per esempio, dovremmo concludere che i periodi più luminosi della storia di Napoli vadano collocati nel bel mezzo dei “bui” anni Cinquanta al momento dell’uscita dei migliori film di e con De Sica, Totò o i De Filippo. Detto questo, si capisce come una parte dei grandi meriti del capolavoro di Matteo Garrone (un regista romano, a volere essere pignoli) risieda nella sua capacità di liberare la materia dalla suddetta imbracatura più politicante che storicistica.


Garrone traspone la discesa di Saviano negli abissi della realtà criminale con una fedeltà non formale e, anzi, ha la forza e il coraggio di conferirgli una rinnovata chiave espressiva di conio specificatamente filmico. La differenza è vistosa, per esempio, rispetto all’ottimo Biùtiful cauntri (2008) di Esmeralda Calabria, Andrea D’Ambrosio e Peppe Ruggiero, dove l’asciutta evidenza delle immagini è pur sempre incanalata nell’alveo documentaristico con l’esclusivo obiettivo di suscitare un pertinente moto d’indignazione. Gomorra non s’identifica nei contenuti, come erroneamente interpretano molti estimatori e altrettanti detrattori, ma congegna un viaggio potente e doloroso nel cuore di culture distorte, emergenze vitalistiche e brutali violenze; un intarsio di storie che disegnano sull’intera superficie dello schermo il loro referto, scorrendo ora fluidamente –come ipnotizzate dal fatalismo dei personaggi- ora rapprendendosi in frammenti d’angoscia e di suspense. Lo strenuo approccio può certo evocare il neorealismo, ma solo nel senso di Rossellini; nel senso, cioè, di un vissuto mai costruito dall’alto della superiorità morale dell’autore, bensì costruito assieme a esso. Garrone non imprigiona i flash di un mondo aberrante per fini retorici o romanzeschi, ma nel contempo lo svincola dalla didascalia documentaristica e ne impedisce la dispersione nella babele mediatica. Per ottenere l’intenso risultato ha bisogno di fondere nella cupa sinfonia attori di grande esperienza e misura con esordienti assoluti, in grado di reggere le sfide di sequenze complesse e studiate modulando in accordo alle traiettorie di ripresa le sfumature del gergo schizofrenico e sanguinario. Così, di fatto, lo spettatore non può dirsi più commosso, atterrito o destabilizzato dalle straordinarie incarnazioni dell’executive riciclatore di rifiuti Toni Servillo, dell’esattore della mala Gianfelice Imparato, dell’umile e disilluso sarto Salvatore Cantalupo e del suo losco committente Gigio Morra rispetto a quelle affidate agli sconosciuti Abruzzese, Striano, Paternoster, Macor, Petrone, Venosa, Russo e tanti altri: facce, corpi, ghigni e movenze animaleschi, mostruosi eppure in qualche modo riconosciuti e riconoscibili, che affondano le unghie nell’immaginario al pari dei divi dello Scorsese di Good Fellas o del De Palma di Scarface. In questo senso non c’è davvero nulla in comune con la patina oleografica che, per quanto riguarda Napoli, tende a espandersi nei generi più insospettabili: lucido e mai riconciliato, Gomorra non intende privilegiare gli episodi “raccontati” su quelli “fotografici” ed è pertanto supportato da una colonna sonora di strategica coerenza; nella quale, cioè, i brani dei neomelodici si alternano al repertorio di Nino D’Angelo, poi si mischiano agli echi indistinti dell’inferno circostante e infine svaniscono nelle cadenze ossessive dei Massive Attack. Il dato forse più significativo, da un punto di vista insieme linguistico e morale, si può evincere dal fatto che le sequenze più agghiaccianti sono quelle colte in campo lungo o lunghissimo per fissare un habitat post-apocalittico: darsene deserte e ville abbandonate, labirinti di cemento e campagne contaminate, dove gli esseri umani risultano del tutto secondari e possono essere schiacciati come topi o scarafaggi. Non è inutile ricordare, a questo punto, come Garrone abbia iniziato il suo avvicinamento a una rappresentazione spaventosamente vera nella sua totale reinvenzione con L’imbalsamatore (2002), noir allucinato e “sgradevole” che rende una parte dello stesso sfondo (Villaggio Coppola e le plaghe di Castelvolturno) elemento narrativo intrinseco di una losca storia di plagio sessuale.


Questo procedimento assai sofisticato, che consiste nel passaggio dal “regime dell’antinarrazione” a quello della narrazione forte, non è affatto scontato in questa fase del cinema ispirato alla Gotham City vesuviana. Si sono visti e lodati, per esempio, prodotti discreti come Pater familias (2003) di Francesco Patierno o Certi bambini (2004) di Andrea e Antonio Frazzi, dai quali però promana un quid di assertivo e didascalico che inficia il presupposto drammaturgico e lo riduce all’angolo delle buone intenzioni, uno dei luoghi più frequentati dagli artisti che vogliono sentirsi applauditi prim’ancora che inizi lo spettacolo. Molto più interessante e, tra l’altro, pionieristico sul versante “cattivista” dell’anamnesi societaria, appare Luna rossa (2001) dell’eterno outsider Antonio Capuano che ribalta in tempi non sospetti l’enfasi del cinema di denuncia nella tragicommedia di un potere criminale auto-cannibalesco. Raccontando -nell’onirica successione di quadri a metà strada tra la sceneggiata e il teatro d’avanguardia- la deposizione dell’esponente di un clan camorristico, il film non solo raccorda la sinfonia di un massacro, ma la fa risuonare negli abiti, i corpi, le case, i beni, le voci e i gesti, i segni e i simboli di protagonisti tanto più infimi e infami quanto più gratificati dal culto di se stessi. Capuano è, in fondo, un regista da prima linea, un combattente con la cinepresa; come dimostra il successivo, particolarissimo esperimento dell’irrisolto eppure sincero sino alla strazio La guerra di Mario (2006). In questo caso la guerra dei banditi contro la legge lascia spazio, infatti, alla lotta tutt’altro che metaforica tra due delle anime di Napoli, quella dei quartieri abbienti e dei cittadini perbene e quella delle periferie degradate e dei “mau-mau” aggressori e vandali. Pur sembrandoci evidente che il film resti vittima del gioco tesi-antitesi e conferisca al frustrato tentativo della protagonista di estirpare il dna camorristico dal ragazzaccio chiesto e ottenuto in affido un vetusto sentore manicheo, non si può non ammirare la performance di Valeria Golino nel ruolo di signora borghese pervasa da un amore e un altruismo prossimi alla mistica follia (forse debitore dell’affine performance di Ingrid Bergman nel rosselliniano Europa 51).


Sia pure penalizzato da una distribuzione deficitaria, una confezione pauperistica e una certa retorica populista, anche L’avvocato De Gregorio (2003) di Pasquale Squitieri può servire per chiarire in positivo il divario che corre tra la comoda adesione neo-naturalistica e lo slancio temerario della pura fiction. La parabola dell’equivoco avvocato radiato dall’albo che si riscatta smascherando gli impuniti responsabili di una “morte bianca” viene, infatti, caricata sulle spalle poderose di Giorgio Albertazzi per mantenere la presa su di un vissuto talmente usurato e vilipeso da risultare pour cause estremo, grottesco o scandalistico. Non distante dal negletto film di Squitieri si pone, in fondo, il ben più promozionato Fortapàsc (2008) di Marco Risi, ricostruzione dell’omicidio dell’aspirante cronista del quotidiano “Il Mattino” Giancarlo Siani in cui i difetti fanno da contraltare ai pregi. Gli ultimi quattro mesi di vita del ventiseienne caduto nel settembre dell’85 sotto il fuoco dei killer camorristi vi sono diligentemente ricostruiti secondo i termini del dispositivo caro a Francesco Rosi e più volte replicato dai vari Petri, Damiani e, appunto, Squitieri: sul piano della qualità e credibilità delle recitazioni la tenuta è assicurata, anche perché Risi (al contrario di quanto mostrato due anni prima nel dimesso biopic Maradona – La mano de Dios) sa come gestire “la carne e il sangue” della storia (con formidabili interpreti fuori standard come Antonio Buonomo e Massimiliano Gallo messi a capeggiare un’abominevole schiera di anime perse del locale pantheon malavitoso). Le note negative riguardano nuovamente il ricorso alle tirate demagogiche e ai siparietti didascalici, proprio la tentazione che Gomorra riesce ad arginare e tramutare in una grandiosa metafora a centottanta gradi. Così bravo nell’azione (e la reazione) degli eroi negativi, Risi si fida troppo dei suoi furbi sceneggiatori quando deve rimarcare lo scivoloso e ancora oggi perdurante trait-d’union tra le cosche e la società civile: il delicato rapporto, che abbiamo definito cruciale, tra rappresentazione e invenzione si rompe allora nelle battute programmatiche e di buona coscienza o nelle considerazioni politically correct rivolte contro un bouquet di bersagli tradizionali e plateali.


Vincenzo Marra è sicuramente in possesso dello sguardo giusto per sperimentare le cospicue possibilità della cosiddetta “docufiction” e infatti Tornando a casa (2001), quasi una rilettura scabra e non compiaciuta del capolavoro neorealista La terra trema, è un film potente e a suo modo inimitabile. Peccato che, prima nel dignitoso Vento di terra (2004) e poi nel fallimentare L’ora di punta (2007), il giovane autore abbia finito col trascurare la scelta del rischio stilistico e il piacere della contromossa linguistica per accontentarsi di ricalcare controversie d’attualità che sarebbe stato meglio lasciare alle tribune televisive come “Ballarò” o “Porta a porta”. In realtà pensiamo che la vocazione di Marra sia quella opposta, vale a dire il coraggio d’illustrare il bestiario contemporaneo con i modi dell’epica classica: non a caso la sua opera migliore è il documentario L’udienza è aperta (2006), nel quale tre professionisti immersi sino al collo nei tormenti dell’odierna babele giudiziaria (un presidente di Corte d’appello, un giudice a latere e un avvocato penalista) sono pedinati dalla macchina da presa con tale slancio e coerenza da trasformarsi agli occhi dello spettatore in torreggianti e trascinanti personaggi mitico-simbolici. Su questo versante, che definiremmo decisamente “di personalità pervasiva”, occupato cioè da registi antitetici al canone (senza volere attribuire alla tendenza un segno d’eccellenza o di distinzione), è peraltro logico che i riflettori restino puntati sulla figura di Paolo Sorrentino. In effetti il regista e sceneggiatore vomerese classe 1970 è davvero un’artista, nel senso meno retorico e più pragmatico del termine: corrucciato e pensoso, individualista ed estroso, artigianale ed esclusivo, Sorrentino –grazie anche all’exploit di Il divo (2008)- guida ormai l’elite del cinema nazionale, ma non è ovviamente possibile estrapolarlo dalla peculiarità delle radici. Basta, del resto, il film d’esordio, che finora è anche l’unico ambientato totalmente a Napoli a fissarne la forza, la tensione e l’originalità: L’uomo in più (2001), uno dei migliori film italiani dell’ultimo decennio, racconta l’ascesa e la caduta parallele di un calciatore di successo e un crooner “maledetto” nati nello stesso giorno dello stesso anno e, nel contempo, sviluppa il catartico percorso nei meandri del destino di due antieroi postmoderni. Grazie, in particolare, all’interpretazione sublime di Toni Servillo (ma anche a quella crepuscolare di Andrea Renzi), L’uomo in più si pone senza forzature auto-referenziali all’avanguardia del cinema contemporaneo più lucido; quello, dalle procedure più ardite, che continua a interrogarsi sulla questione che più lo ossessiona: il rapporto tra lo sguardo e il suo oggetto, la distanza o la differenza tra visione, emozione e conoscenza. Assai distanti nella corsa ai primati di critica e di botteghino, Lamberto Lambertini, Nina Di Majo e Antonietta De Lillo contribuiscono tuttavia a tenere viva la sensazione di un cinema d’autore che preserva con cura il proprio dna senza per questo svenderlo agli stereotipi e all’unanimismo patriottici. Mentre la Di Majo con L’inverno (2002) dimostra che anche nella città della luce (spesso melodrammatica e volentieri plebea) è possibile immergersi nelle ombre enigmatiche delle alienazioni borghesi di tipica impronta antonioniana, Il resto di niente (2004) della De Lillo e Fuoco su di me (2006) di Lambertini ricostruiscono episodi fondamentali della storia cittadina con pochi mezzi, ma con una strenua inventiva che si traduce in una serie di quadri –survoltati e spasmodici nel primo caso; straniati e magnetici nel secondo- d’imprevedibile eloquenza. Il fatto che cineasti del tutto indifesi dal punto di vista produttivo siano riusciti, sia pure a intermittenza, a esprimersi a buon livello dimostra quanto conti il legame con fonti culturali e istintive autoctone; fattore che spiega, di converso, il travisamento ambientale a cui si presta un’”esterna” come Francesca Comencini in Lo spazio bianco (2009), tratto dal libro di Valeria Parrella con grande sensibilità femminile sul tema della maternità, ma reso imbarazzante dal tentativo di abbellire il doloroso l’itinerario della protagonista con un autentico presepe del politicamente corretto.


Gli outsider, come si può immaginare, nel contesto napoletano tendono fatalmente a iscriversi alla lista della normalità; a meno che, come nel caso di Pappi Corsicato, non restino fedeli a una vena personale intermittente e ondivaga per natura e non per necessità. Se Chimera (2000) segna una perdita secca perché l’estremismo kitsch vi si ritrova nella condizione dell’albatros baudelairiano (che, come il poeta, diventa goffo e grottesco quando è strappato all’aria e costretto a mordere il terreno), Il seme della discordia (2008) rielabora l’inconfondibile mix di humour nero, icone pop, gadget alieni e comportamenti che si stagliano su fondali metafisici abitati da personaggi carnali. Tratto da un famoso racconto di von Kleist (già trasposto in immagini da Rohmer), il film affronta il vissuto dei protagonisti senza buttarla in sociologia spicciola, bensì inserendosi in filigrana alle immagini sotto forma di flash stralunati, fumetti animati, dettagli abnormi e scatti di pura felicità surreale. Corsicato non aspira certo a intromettersi nelle inchieste o i talk-show dedicati alle dinamiche della coppia e alla salute dell’istituzione matrimoniale; ciò che lo interessa e stimola, nel contesto dei falansteri del Centro Direzionale, è un dissidio tra materia e spirito più paradossale che mai. In questo senso il look dei protagonisti, la sostanza gassosa dei loro propositi, la deriva non recriminatoria dei loro destini compongono un balletto in apparenza frivolo e pacificato, ma a guardar bene pieno di crepe morali e vuoti sentimentali. Nel novero dei raccontatori di storie più inclini a farsi abbagliare dagli incisi e dalle pause piuttosto che dalle equazioni finali, possiamo aggiungere, quasi per regalarci la sicurezza di un ritorno se non eterno, quantomeno ciclico, un giovane e un veterano… Non c’è alcuna somiglianza, di sicuro, tra il jarmushiano Una notte (2007) del figlio d’arte Tony D’Angelo (e pensare che il padre Nino s’era fermato sette anni prima alla cineparodia di Aitanic) e il corrusco Napoli, Napoli, Napoli (2009) del newyorkese Abel Ferrara, né si può dire che siamo al cospetto di esiti memorabili: però è utile sottolineare come, in entrambi i casi, la spinta al riscatto di una metropoli precipitata al grado zero della coesistenza civile sia portata con un senso aggiornato della drammaturgia e una sensibilità fuoriuscita dalle cerniere istituzionali.


Se esiste una formula vidimata dai fatti, è quella del connubio tra napoletanità e comicità, ragione per cui non suscita particolare sorpresa il fatto che la miniera del maxigenere non rischi anche in questa svolta di secolo l’esaurimento. Risulterebbe quindi monotono elencare le svariate personalità e le più o meno agguerrite produzioni che continuano a rivolgersi al pubblico nella chiave che fu di Totò e di Peppino. Il più fortunato e frequentato è senza dubbio Vincenzo Salemme, il quale da L’amico del cuore (1998) in poi ha licenziato quasi un film a stagione (Amore a prima vista, A ruota libera, Volesse il cielo!, Ho visto le stelle, Cose da pazzi) senza ribadire neppure lontanamente l’esilarante verve dell’esordio. Che non si tratti di un nostro pregiudizio malevolo lo dimostra il fatto che le sortite del biennio 2007-2008 (Sms-Sotto mentite spoglie e No problem) già appaiono un tantino più gradevoli e rifinite, senza peraltro riuscire a contrastare l’idea che l’autore-attore formatosi nella compagnia di Eduardo sia geneticamente più adatto a condurre la farsa dal vivo del palcoscenico, senza l’ingombro del frigido transfert dell’obiettivo. E’ giusto ricordare anche Eduardo Tartaglia (Il mare non c’è paragone, Ci sta un francese, un inglese e un napoletano), il duo Paolo Genovese/Luca Miniero (Incantesimo napoletano, Nessun messaggio in segreteria), Bruno De Paola (Il sogno nel casello) o lo “straniero” Francesco Ranieri Martinotti messosi al servizio del cabarettista Alessandro Siani per i fragili quanto aggraziati ricalchi troisiani Ti lascio perché ti amo troppo (2006) e La seconda volta non si scorda mai (2008); ma resta la sensazione precisa di un sopraggiunto narcisismo che si fida troppo della melina dei volti, dei gesti e delle battute senza dedicare l’indispensabile attenzione ai contropiedi delle storie e delle sceneggiature.


Chi desiderasse provare questo tipo di brivido –ritrovare l’”aria di casa” al termine di un percorso segnaletico a ostacoli, utile non tanto a (ri)produrre le consuete conoscenza e identificazione, ma casomai a consumare energia- deve rivolgersi a titoli ibridi, capaci cioè di transitare da un polo all’altro dell’imprinting, come i provinciali Lontano in fondo agli occhi (2000) di Giuseppe Rocca e Lascia perdere, Johnny! (2007) di Fabrizio Bentivoglio e il metropolitano Ossidiana (2007) di Silvana Maja, evocazione struggente e visionaria dell’infelice parabola esistenziale tra gli anni Cinquanta e Sessanta della pittrice Maria Palliggiano. O magari ripescare il rutilante e rapsodico Mater Natura (2006) di Massimo Andrei: opera vivida quanto imperfetta, che assorbe suggestioni inedite e stereotipate con uguale trasformismo stilistico estraendo numerose perle dal magma di una sceneggiatura volontariamente (pericolosamente) librata sui bordi del camp. Pur aggiornando con uno sguardo contemporaneo il tema straziato e sentimentale dei travestiti dal cuore generoso avvolto dai vezzi della lussuria, l’attore, autore e regista classe ’67 si dedica, in fondo, a truccare secondo la propria sensibilità lo schema-base del popolarissimo filone partenopeo che va da Elvira Notari a Mario Merola.

L’ultima preoccupazione dello studioso e dell’appassionato dovrebbe, in effetti, essere quella di temere anche in questa direzione mitopioetica la “fine della storia”. Il cinema di, su, per Napoli è intanto affidato al salto di qualità di post-giovani come Francesco Patierno o Stefano Incerti (del quale esce nel 2010 Gorbaciov – Il cassiere col vizio del gioco, cucito su misura di Toni Servillo, il cui impressionante talento ce la farà a sopravvivere al rischio di sovresposizione di stampo autoriale) e all’auspicabile replica di outsider come Carlo Luglio (risalito con le proprie forze dal greve Capo Nord al corporale e contundente Sotto la stessa luna) o Diego Olivares (creatore della piccola epica di I cinghiali di Portici). Poi non trascureremmo la crescita di Vincenzo Terracciano, già convincente con Ribelli per caso (2001), brillante apologo libertario ambientato in un reparto ospedaliero di gastroenterologia. Il più recente Tris di donne & abiti nuziali (2009) scivola infatti in souplesse tra il tema classico dell’autodistruttiva passione per il gioco e quello inedito di un certo familismo sudista, funzionale nella solidarietà ancorché irregolare o addirittura amorale nei comportamenti. Non a caso lo script affianca al consolidato team del regista con Laura Sabatino la firma di Giuseppe (Bepi) Improta, brillante intellettuale, scrittore e cinéfilo che ha vissuto e contrassegnato un’epoca di trasgressiva gioventù vomerese. La chiave di lettura di questa neo-commedia italiana virata al nero sta proprio nel quartiere collinare di Napoli, dove la “normalità” borghese e piccoloborghese sta per essere sgretolata dall’altra città, quella ormai stranota della diffusa sopraffazione criminale; il tavolo da gioco, la sala corse, la bisca o l’ippodromo diventano, così, in anticipo sui misfatti del calcio-scommesse, simili a stadi in miniatura in cui l’azzardo e l’anticonformismo vitalistici cercano di fare a loro modo opera di resistenza. Le scale di via Morghen, illuminate dai toni appena nostalgici dell’operatore Fabio Cianchetti, incarnano in questo senso la riuscita allegoria del movimento narrativo a pendolo che induce l’eduardiano deus ex machina Sergio Castellitto e gli altri personaggi a confrontarsi con le proprie ossessioni, ma anche a contaminarsi con le equivoche maschere dell’imminente Napoli “rinascimentale”. Infine ci sembra un ulteriore segnale di moderato ottimismo il fatto che i media abbiano finito con il cooptare nella galleria un po’ ammaccata, ma sempre autorevole, nomi e cognomi come quelli di Angelo Curti di Teatri Uniti e Nicola Giuliano (con Francesca Cima) della Indigo Film destinati a restare in altri tempi sepolti nelle agende degli addetti ai lavori.

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